Poesie (Fantoni)/Scherzi/XXIX. A Palmiro Cidonio
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XXIX
A Palmiro Cidonio
Erge la fronte candida
giá l’Appennin di nevi,
spingon omai piú brevi
i freddi giorni ’l vol,
5e il tardo peso indocili
a sostener del gelo,
fremon le selve e in cielo
impallidisce il sol.
D’erbette il prato è povero:
10fra i sterpi e fra le spine
solo l’argentee brine
si veggon tremolar;
e le cadenti gocciole,
dai rami invan divise,
15si uniscono indecise
con languido ondeggiar.
Dalla caverna eolia
libeccio procelloso
flagella, disdegnoso,
20il sottoposto mar;
e su la spiaggia ligure
ogni straniera nave
morde l’arena, e pave
i nembi d’affrontar.
25Mi copre il tergo doride,
di biondo irsuto manto,
e, al pigro fuoco accanto,
meco seduce il dí.
L’aride legna apprestami,
30in ordin le dispone,
e avviva nel carbone
la fiamma che fuggì.
Rumoreggiando stridula
cresce superba, e un dolce
35sparge tepor, che molce
il gelido rigor.
Le tarde membra scuotono
l’avaro gel, che langue,
e piú fugace il sangue
40va palpitando al cuor.
Si desta allor piú fervido,
fra lo scherzar felice
di fantasia pittrice,
l’audace immaginar,
45che su le corde rapide
di tosca cetra aleggia
e i numeri vezzeggia,
che solca Flacco usar.
Di Chianti ambrosia, in anglico
50vetro genial, m’invita
dell’inquieta vita
le cure ad obliar!
Su l’orlo pargoleggiano
le Gioie lusinghiere,
55e il tremulo Piacere
nel curvo fondo appar.
Le Grazie il crin m’intrecciano
di persa e di tardive
rose, che van, lascive,
60cercando libertá.
E dove il collo eburneo
sembra che in seno inclini,
m’allenta i bianchi lini
l’amica Voluttá.
65Denso vapor circondami,
ove, fra il dubbio lume
di mille oggetti, il nume
mi tesse un dolce error.
Cosí l’immagin concavo
70igneo cristal figura
su l’incantate mura
al ciglio ammirator.
Non piú d’erbette vedova
mi par la mesta sponda,
75non piú sdegnata l’onda,
né piú turbato il ciel.
Di fior si veste il margine,
il letto l’onda scopre,
e nube piú non copre
80l’etra di fosco vel.
Siepe di mirto idalio
intorno al rio si stende
pietosa, e mi difende
dal verno agitator.
85E un tepidetto zeffiro
v’alberga prigioniero,
e lambe passeggero
variopinti fior.
Cosí, Paimiro, ascondesi
90spesso nell’onde il giorno,
e, quando fa ritorno,
spesso mi trova a ber:
il ciglio i rai percuotono,
e, allor che aprirlo io tento,
95sul vuoto mi addormento
indocile bicchier.
Godiamo che all’instabile
avara falciatrice
d’insidiar non lice
100chi disprezzar la sa.
Né paventar se al niveo
crine ti tesse inganno,
col quarantesim’anno,
la fuggitiva etá.
105Sparsi d’argento, gli omeri
curvava Anacreonte,
e su la calva fronte
ridea la gioventú.
Le rose inteste all’edera
110scherzavan con la chioma,
che, dall’etade doma,
non risplendeva piú.
Le nude Grazie e i garruli
Scherzi, che Amore ispira,
115reggean la greca lira
al vecchio suo cantor;
e le leggiadre Veneri,
e il pargoletto Riso
tergean sul crespo viso
120gli amabil sudor.
Dei lascivetti satiri
la turba cornipazza
premeagli sulla tazza
il cretico licor;
125ed i gementi grappoli
sotto la curva mano
gían contrastando invano
fra loro il primo onor.
Lungi le cure e il torbido
130timor, Palmiro amato;
losco deride il fato
gl’inutili pensier.
E la natura provvida,
che a un dolce ben ci guida,
135i nostri giorni affida
al tenero piacer.
Giusto il nocchier dell’Erebo,
che al fatal varco aspetta,
fa del piacer vendetta
140sul folle sprezzator:
oltre il confin tragittalo
e lo consegna al lento
inutil Pentimento,
che lo flagella ognor.