Poesie (Fantoni)/Odi/Libro I/XXVII. Ad Antonio Cerati
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XXVII
Ad Antonio Cerati
(1786)
Non piú da Cauro, di neve prodigo,
curvati gli aridi boschi s’adirano,
ma i lieti zefiri per l’ampio oceano
soavemente spirano.
5Giá s’ode, obbrobrio dei re cecropii,
il miser’Itilo con voce fievole
sul nido piangere ed il rio ripeterne
il suono lamentevole.
Dal chiuso corrono ovile al pascolo,
10che il sol piú tepido seconda e irradia,
le gregge, e i satiri sui neri tornano
pingui colli d’Arcadia.
Al raggio languido della cornigera
luna le Grazie danzan con Venere,
15e i passi, in cerchio congiunte, alternano
su le fresch’erbe tenere.
Cerati placido, cui sempre lucida
la mente serbasi, caro alle amabili
suore castalie, ricco di candidi
20costumi inalterabili,
vieni del patrio fiume sul margine,
e nosco assidasi Lidia la nubile,
presso quel platano, cui ’ntorno s’agita
la vitrea onda volubile.
25Nera ha la morbida chioma e le fulgide
pupille, tenue la bocca ed umido
il labbro, rosea la molle guancia,
il sen di latte tumido.
D’amor, se facile, su l’arpa celtica
30inalza all’etere l’opre piú nobili,
dell’ali immemori sul crin le pendono
tacendo i venti immobili.
Godi da saggio, meco di «málaga»
vuotando un calice, che desta l’utile
35facondia e l’avida sete può spegnere
di un desiderio inutile.
Ché brevi e fragili sono del vivere
i giorni, e scendere tutti alle squallide
sedi inamabili dobbiam dell’Èrebo,
40ombre dolenti e pallide.
Né, se con prodighi doni o con vittime
tenterai timido l’illacrimabile
Pluto, la forbice potrai sospendere
del fato inesorabile.
45Non alla nordica figlia di Alessio
giovò di gloria poggiare al culmine,
non al Prometeo filadelfiaco
rubare a Giove il fulmine,
né in campo vincere al Prusso o al profugo
50Scozzese il regio vetusto genere:
curvârsi, e caddero; e un’urna tacita
freddo ne chiude il cenere.