Tiberio

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Alexandros Gog e Magog


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TIBERIO



I


Discende a notte Claudïo dal monte
Borèo: col vento dalle nubi fuori
rompe la luna e gli balena in fronte,


fuggendo. Egli rimira, a quei bagliori,
Livia e l’infante: intorno vanno frotte
silenziose di gladïatori.


S’ode tra lunghe raffiche interrotte
l’Eurota in fondo mormorar sonoro;
s’ode un vagito. E nella dubbia notte


le nere selve parlano tra loro.



II



Rabbrividendo parlano le selve
di quel vagito tremulo, che a scosse
va tra quel cauto calpestìo di belve.


Sommessamente parlano, commosse
ancor dal vento, che vanì; dal vento
Borea, che le aspreggiò, che le percosse.

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Dal ciel lontano a quel vagito lento
egli era accorso; ma nell’infinito
ansar di tutto, dopo lo spavento,


risuona ancora quel lento vagito.



III



Chi vagisce, è Tiberio. E il vento accorre
dal ciel profondo tuttavia; spaura
le nubi in fuga, e sbocca dalle forre.


Le selve il mormorìo della congiura
mutano in urlo, e gli alberi giganti
muovono orridi in una mischia oscura.


Lottano i pini coi disvincolanti
frassini, e l’elci su la stessa roccia
coi faggi urtano i vecchi tronchi infranti.


E il fiore della fiamma apresi e sboccia.



IV



Sboccia la fiamma, e il vento la saetta,
come una frusta lucida e sonante,
via per ogni pendìo, per ogni vetta.


Il vento con la frusta fiammeggiante,
col mugghio d’una mandrïa di tori,
cerca il vagito del fatale infante.

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Ardono i monti; ma ne’ suoi due cuori
Livia tranquilla, indomita, ribelle,
tra i rossi òmeri de’ gladïatori,


nutre Tiberio con le sue mammelle.