Poemi conviviali/Tiberio
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TIBERIO
Discende a notte Claudïo dal monte
Borèo: col vento dalle nubi fuori
rompe la luna e gli balena in fronte,
fuggendo. Egli rimira, a quei bagliori,
Livia e l’infante: intorno vanno frotte
silenziose di gladïatori.
S’ode tra lunghe raffiche interrotte
l’Eurota in fondo mormorar sonoro;
s’ode un vagito. E nella dubbia notte
le nere selve parlano tra loro.
Rabbrividendo parlano le selve
di quel vagito tremulo, che a scosse
va tra quel cauto calpestìo di belve.
Sommessamente parlano, commosse
ancor dal vento, che vanì; dal vento
Borea, che le aspreggiò, che le percosse.
Dal ciel lontano a quel vagito lento
egli era accorso; ma nell’infinito
ansar di tutto, dopo lo spavento,
risuona ancora quel lento vagito.
Chi vagisce, è Tiberio. E il vento accorre
dal ciel profondo tuttavia; spaura
le nubi in fuga, e sbocca dalle forre.
Le selve il mormorìo della congiura
mutano in urlo, e gli alberi giganti
muovono orridi in una mischia oscura.
Lottano i pini coi disvincolanti
frassini, e l’elci su la stessa roccia
coi faggi urtano i vecchi tronchi infranti.
E il fiore della fiamma apresi e sboccia.
Sboccia la fiamma, e il vento la saetta,
come una frusta lucida e sonante,
via per ogni pendìo, per ogni vetta.
Il vento con la frusta fiammeggiante,
col mugghio d’una mandrïa di tori,
cerca il vagito del fatale infante.
Ardono i monti; ma ne’ suoi due cuori
Livia tranquilla, indomita, ribelle,
tra i rossi òmeri de’ gladïatori,
nutre Tiberio con le sue mammelle.