bruna acqua, acqua che fiori apre di gialle
rose palustri e candide ninfee.
Ora egli udì la rauca cantatrice
della fontana, Mecisteo di Gorgo,
e seguì l’orma querula e si vide
a un verde stagno che fiorìa di gialle
rose palustri e candide ninfee.
Come egli giunse, la canora rana
tacque, e lo stagno gorgogliò d’un tonfo.
Or egli prima nello stagno immerse
le mani e a lungo stropicciò la rea
con la non rea: di tutte e due già monde
del pari, fece una rotonda coppa,
e la soppose al pìspino. Nè bevve.
L’acqua era nera come morte, e rossi
come saette uscite dalla piaga
erano i giunchi, e livide, di tabe,
le rose accanto alle ninfee di sangue.
E Mecisteo fuggì dal nero gorgo
chiazzato dalle rose ampie del sangue;
fuggì lontano. Or quando già l’ardente
foga dei piedi temperava, un tratto
sentì da tergo un calpestìo discorde:
due passi, uno era forte, uno non era
che dell’altro la sùbita eco breve:
onde il suo capo inorridì di punte
e il cuore gli si profondò, pensando
che già non fosse il disugual cadere
di goccie rosse dentro l’acque nere,
nè la lontana torbida querela
di quella rana, ma pensando in cuore
ch’era Ate, Ate la vecchia, Ate la zoppa,
che dietro le fiutate orme veniva.