Poemetti (Rapisardi)/Polifemo

Polifemo

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Amatea La Cometa
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POLIFEMO.


     Qual influsso maligno o poter cieco
D’eredata follía vi spinge all’antro
Di Polifemo, o naviganti? Infame
D’umane stragi è il loco, ove rimoto
Da qual sia legge e d’ogni pio costume,
Vegeta ancora il posidonio mostro,
Che, come già nei vostri avi e ne’ padri,
Spera in voi cruentar l’empia mascella.
Fosco, irsuto carname, ecco all’aperto
Egli si trae dal sanguinoso speco,
Or che l’orto biancheggia; e le vellose
Mandre ben munte a pasturar conduce
Per le roride piagge. Orrido in fronte,
Qual purpureo cratere in ciel notturno,
Gli arde un occhio sanguigno, in cui si specchia
Inorridita la Natura istessa
Che sbozzava tal prole. E tu di miti

Erbe e di fruttuose arbori al suo
Piede, o Terra, verdeggi? E inconscienti
Fere non sol, ma previdenti umani,
Madre insensata, a’ pasti suoi concedi?
Torbido e rabuffato oltre il costume,
Presso al lido e’ si getta ove l’avea
La sera innanzi Galatea schernito;
E un pensier di vendetta il cor gli abbuja,
Qual nuvola che penda atra sul mare,
E mugolando e lampeggiando svegli
Da’ letti algosi a danza orrenda i flutti.
Domate avea le riluttanti forze
De’ vulcanici massi: uno su l’altro
Addossati li avea con polso invitto
A circuir d’invalicabil muro
L’antro suo, la sua reggia; avea la razza
Delle montane e dell’equoree belve

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Al suo volere, al suo piacer conquisa,
E non avrebbe a’ voti suoi costretta
Una tenue bellezza, un vitreo fiore
De’ marini recessi? E non pur sempre
Nuda, a fior d’acqua, all’amor suo ribelle,
Fuggir vista l’avrebbe, e nella fuga
Lanciar contro di lui risa e motteggi,
Ma d’altri vaga, ad altri in braccio, avvinta
D’agreste nodo ad imenei mortali?
Chi non mirò tra neri scogli al verno
Livida ribollir l’onda fremente,
Contorcersi sbuffando e in bieche spire
Morder le rupi ed avventarsi al lido,
L’ira non sa che a tal pensier fervea
In quella truculenta anima. In piedi
Balza d’un lancio, e qua e là scorrendo
E smaníando per l’erboso piano,
Greggi flagella, alberi svolle, e il mare,
Che placido scintilla a lui dinanzi,
Con sassi enormi e insani ululi offende.
Ma come pria da l’onda trepidante
Sorger mirò la radíosa forma
De la bianca Nereide (e un roseo coro
D’oceanine vergini, beate
Dell’aer novo, le facean corteo)
Caddero dal selvaggio animo a un punto
Gli smaníosi impeti; e gontio il petto
Di repeutina brama, arido il ciglio,
Dilatate le labbra irsute, al lido
Anelando accostavasi pian piano.
E alle promesse, a’ vanti, alle minacce
Già fremendo sciogliea la rauca voce,
Quando la Ninfa, su’ cerulei strati,
Mollemente cullandosi, con questi
Detti quella rubesta anima assalse:
Fremi pure e minaccia, e me non solo,
Ma Giove e il Fato iniquamente oltraggia,
Non però più benigna o meno avversa
Alla torva libidine n’avrai,
Onde il tuo cor palesemente avvampa.
E che speri da me? Prima nel regno
Liquido di Nerèo vive e fiammanti
Penetreranno di Vulcan le faci;
Voleran prima a diguazzar ne’ puri
Talami dell’Aurora irchi e cinghiali,
Che alle tue braccia mostruose io venga
Docil consorte o ríottosa amante.
Che mai Giove ne die’ che in noi consenta!
Nulla abbiam noi che ci accomuni, e nulla
Avrai di mio, fuor che lo sdegno e il riso,
Ond’io t’inseguo inesorata; nulla
Mai da te mi verrà, tranne il ribrezzo,
Onde accapriccia il corpo mio, non prima
Veda il tuo ceffo e il tuo muggito intenda.
A me, pura qual nacqui, errar gli algosi
Campi materni e i corallini spechi
Liberamente, a me nuotar fu dato
Rosea tra ’l fior de le gemmanti spume
Ove Amore m’adduca: o ver su cocchio
Di madreperla sorvolar gli abissi
De le vaste acque, e nitida fra due
Azzurre immensità, ebbra di luce,
Fiorire al sol di giovinezza eterna.
Ma che altro sei tu, se non demente
Corpo che altrui l’aria e la terra usurpa,
Sformata, ibrida mole, onde gl’ingordi

Pori aspiran di mille esseri il sangue!
Sei forte, il so: ma forza al mal rivolta
Peste è del mondo, e premio no, ma pena
Da’ numi offesi e dall’uom saggio aspetta:
Vampo un tratto ne meni, e di gementi
Ostie ti godi; ma su te, nell’ombra,
Nemesi veglia e la vendetta affila.
Ecco, braccio ella tende; ecco, il fatale
Tizzo all’eroe vaticinato appresta,
Che mentre ebbro tu giaci, oscenamente
Dape umana eruttando, entro a codesta
Lampa feral che ti rosseggia in fronte,
Come appuntato trápano, il rigira.
Che ti varranno allor, misero, queste
Millantate tue forze? Orbo e furente
Errerai brancolando al mare in riva,
Triste zimbello a peregrini; o assiso
Presso all’antro deserto, i numi e il Fato
Accuserai con ululati orrendi,
Finchè in ira a te stesso, e di te stanco,
Ad una rupe, men di te crudele,
L’esecrabile capo infrangerai.

     Strale fu tal presagio al cor del mostro,
Che, qual toro aizzato, al lido estremo
Rompendo, e presto a saltar giù ne’ flutti:
Che minacce, ululò, che profezie
Sfringuellando mi vai, perfida ninfa
Da qual nom, da qual dio paure e danni
Polifemo aver può! Solo su questa
Terra inconcusso ed assoluto io regno.
Io Polifemo di Nettun figliuolo;
Qui di carni ferine e di parlanti
Uomini impinzo io l’epa a mio talento,
A dispetto di Giove. E tu vorresti
Con presagi atterrirmi? E tutto mio
Quanto respira qui: legge e destino
Sono a me stesso, a quanto vive, io solo!

     Disse, e in mar si lanciò: con alto tonfo
L’inorridita acqua s’aperse, e loco
Diede all’alpestre nuotator. Qual core
Fu allora il vostro, o semplicette amiche
Di Galatea! Con subito clamore,
Come assalite folaghe, nell’onda
V’attuffaste d’un salto; e da’ materni
Spechi, non senza trepidar, mettendo
Or si or no le ricciutelle teste,
Galatea chiamavate; e Galatea,
Galatea ridicean gli echi atterriti.
Ombreggiate dal mostro irto, su loro
Spumeggiando piangean l’onde percosse,
Come quando Oríon d’un improvviso
Nembo le investe; ma qual vivo opale
Rideano intorno al corpo alabastrino
Di Galatea, che flessuosa ed agile
Con lesti guizzi e torti giochi all’ispido
Braccio, che già già la ghermisce, involasi.
Sbuffa l’insano, e dall’oscena bocca
L’amara onda soffiando, i flutti spezza
Col vasto petto; e, qual cetaceo enorme
Che il mortal raffo ha nella schiena infisso,
In vana corsa si travaglia e sfianca;
Stolto, e non sa, che al vicin lido intanto,
Con la vendetta profetata in seno,
Fausta biancheggia d’Odisseo la vela!