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In un mesto pensier, nel vaporoso
Velo nascose il regal capo, e tacque.


III.


     Non però tacque d’Amatea nel core
Il tormentoso desiderio. Informe
Sorgea dal mar la moribonda luna,
E come bocca di fornace un rosso
Vampo gittava alle cineree nubi,
Che in torvi gruppi le facean corteo.
Ma candida su queste e rilucente
Qual polito adamante alto si libra
Venere, e poi che amor la rende audace,
Con intrepida fronte il sole aspetta.

     Per la ripida china allor discese
La derelitta, e giuuta al pian si assise.
Silenziosa, sconfinatamente,
Vedova d’opre si stendea la valle,
Che frastagliata da purpuree lave
Qua e là d’iridate erbe ridea.
Ella pensò: Fra le mie braccia un giorno
lo qui vidi offuscar l’amato volto,
Qui lo vidi affisar pallido il vuoto,
E qui vidi tremando i suoi sbarrati
Occhi soavi scintillar di pianto.
Che sia qui la fatal gemma sepolta
Che può darmi la pace?
                                   Una spelonca
(Orecchio alto e discreto, onde al materno
Cor della Terra giungono le voci
Dell’umano dolore) a lei da presso
Vaneggiava muscosa e da rampanti
Edre e da felci ferruginee cinta.
Entrò cauta e perplessa la meschina.
E poi ch’era di muschj e di licheni
Molle e soffice il suol, non del suo passo
Ma del suo core i ratti moti udía.
Si soffermò dove più greve e tetra
Pendea sul capo la pomicea volta,
Ed al perpetuo distillar del masso
Più lubrico e scosceso era il terreno;
E là con voce sospirosa: 0 Terra
Veneranda, invocò, se cura alcuna
Mai de’ tuoi figli e di te stessa avesti,
Non disdegnar la mia preghiera, ed abbi
Pietà di noi. Tu ch’a l’uccel ferito
Insegni, o madre, la balsamica erba,
Un conforto a me reca, e la sostanza
Alta mi porgi, onde il mio sposo affanna!


     Echeggiò pel sonoro antro la voce
De la meschina, ma risposta o segno
Di pietà la meschina indarno attese.


IV.


     Splendea vasto il merigge, allor che oppressa
Dal crescente dolor la derelitta
Giunse con occhi lagrimosi al mare.
Odoravan le piagge; e con l’enorme
Testa appoggiata alla marmorea rada
L’azzurro mostro placido dormía.
Sorgeva al misurato ampio respiro
In onde eguali il vasto petto, sparso
Di bronzine alghe e di sanguigni ricci,
Mentre di vaghi fremiti (che dolce
Sogno il mostro sognava?) i cristallini
Spechi e l’aure e le sponde erano vivi.
Ella al mare parlò: Padre, che tutte
Sai le umane venture, a te mi volgo
In quest’ora suprema, e genuflessa
Un consiglio ti chiedo: ove, ove mai
Troverò la sostanza alta, che il mio
Sposo a me renda e al nostro cor la pace?
Misera! e dovrò sempre in vane inchieste
Affaticar l’anima, un di si chiara
Nella gloria d’amore ed or si fosea?
Serba i tesori che nel sen tu celi
A’ men tristi di me: sol che mi assènti
Una speranza, o padre, a questo lido
Vigile aspetterò fin che appassite
Cadan le bianche e le vermiglie rose
Del corpo mio, fin che canuto e raro
Facciasi il crin ch’ora si folto oreggia;
Se recondita giace entro al tuo seno
La fatal gemma, ed è destin che questa
Gracile man deva al tuo sen rapirla,
Nel tuo sen profondarmi ecco non tremo!

     Sorse a tali parole a fior dell’onde
Una candida forma indefinita,
E tacita, con lento atto, a la mesta,
Tutta in lei fisa, di venir fe’ cenno.
Confidente ella mosse, e al mar discese:
Abbrividi fin dentro il core al freddo
Bacio del flutto, e con un picciol grido
Tese al fantasma candido le mani,
Destossi il mare, e nelle grandi, azzurre
Braccia pietoso la dolente accolse.


POLIFEMO.


     Qual influsso maligno o poter cieco
D’eredata follía vi spinge all’antro
Di Polifemo, o naviganti? Infame
D’umane stragi è il loco, ove rimoto
Da qual sia legge e d’ogni pio costume,
Vegeta ancora il posidonio mostro,
Che, come già nei vostri avi e ne’ padri,
Spera in voi cruentar l’empia mascella.
Fosco, irsuto carname, ecco all’aperto
Egli si trae dal sanguinoso speco,
Or che l’orto biancheggia; e le vellose
Mandre ben munte a pasturar conduce
Per le roride piagge. Orrido in fronte,
Qual purpureo cratere in ciel notturno,
Gli arde un occhio sanguigno, in cui si specchia
Inorridita la Natura istessa
Che sbozzava tal prole. E tu di miti

Erbe e di fruttuose arbori al suo
Piede, o Terra, verdeggi? E inconscienti
Fere non sol, ma previdenti umani,
Madre insensata, a’ pasti suoi concedi?
Torbido e rabuffato oltre il costume,
Presso al lido e’ si getta ove l’avea
La sera innanzi Galatea schernito;
E un pensier di vendetta il cor gli abbuja,
Qual nuvola che penda atra sul mare,
E mugolando e lampeggiando svegli
Da’ letti algosi a danza orrenda i flutti.
Domate avea le riluttanti forze
De’ vulcanici massi: uno su l’altro
Addossati li avea con polso invitto
A circuir d’invalicabil muro
L’antro suo, la sua reggia; avea la razza
Delle montane e dell’equoree belve