Poemetti (Rapisardi)/Amatea
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AMATEA
I.
La candida Amatea dall’auree trecce
Lasciò l’ermo palagio, e, come apparve
Espero, al Monte de’ Sospiri ascese.
Misera! e non avea da un mese ancora
Libato i baci del regal suo sposo.
Quando in un’alta incantagione attorto
Ei così le parlò: Sposa, a me cara
Più della gloria che bramai già tanto,
Più del saper che ad ogni fonte attinsi,
Più della fede, a le cui nivee mamme
Il dolce latte degl’inganni io bevvi,
Ahi, la pace, la pace, cnde soltanto
Dopo errori si lunghi avido asseto,
Ne’ baci tuoi, nell’amor tuo non trovo!
Chi darmela potrà! Tutte percorsi
Le vaste sedi de’ mortali; ad ogni
Coppa, ov’altri spumar vede il piacere,
Chiesi indarno l’ebbrezza; alla divina
Arte de’ suoni, che in celesti errori
Svaga le menti e la perpetua cura
Che rode il petto de’ pensanti assonna,
Il nepente cercai, l’incantatrice
Aura che plachi la funerea Sfinge:
Misero, e che mi valse? Allor che prima
La tua bellezza agli occhi miei sorrise,
Uno splendore che fluía da l’alto,
Una speranza che salía dal core,
Ecco, mi disse, il tuo conforto è nato!
Chi provò la beata estasi, ond’io
Fui preso allor che per la prima volta
Versai l’anima mia dentro al tuo seno!
Solo quel punto io vissi: or come pria
A me dintorno ombra e deserto è il mondo.
Che più? Mentr’io su la tua bocca ansante
Cercava un di l’inebbríante oblio,
Ecco, al nostro guancial, sovra il tuo capo
Una gran luce a me si aperse, e il suono
Della voce paterna irata intesi:
«Finchè de’ sensi tuoi, de’ tuoi pensieri.
Dell’opre tue segno farai te stesso,
Come belva ferita, in cieche ambagi
L’anima tua s’aggirerà. Che stai?
Rompi i lacci incantati; esci all’aperto:
Altre fatiche, altro dolor vedrai
Spasimarti dintorno; altre catene
Serrar l’anime a’ vinti. A lor ti accosta;
Interroga l’immensa anima: in essa,
Chiusa ad occhio volgar, vive un’essenza,
Che darà al mondo ed al tuo cor la pace!»
Da quell’istante, o sposa mia (perdona
Se triste è il vero), all’amor tuo non vivo:
Nel petto mio, nel mio cervel gli artigli
Una Chimera fiammeggiante accarna;
E da te lungi, a meditar l’oscura
Sorte dell’uomo, in sua balía mi porta.
Ella invan pianse; egli partì. Qual terra,
Qual foresta, qual cieco antro l’accolse?
La dolente nol sa; quanti ella visse
Nel dubbioso aspettar secoli o giorni?
L’ignora. Da un pensier lucido e forte
Ispirata a la fin, prese il bordone,
E al sacro Monte de’ Sospiri ascese.
II.
Per l’alpestre sentier, su per la selva
Di neri ilici opaca e di ginepri,
La derelitta procedea di bianche
Lane ravvolta, e più che da stanchezza,
Vinta e curvata da la vigil cura:
Arco parea di giovinetta luna,
Che tra ciocche di nubi amarantine
Or sì or no da le radure affaccia.
A la vetta pervenne allor che a mezzo
De’ firmamenti era la notte ascesa,
Ed all’affascinato occhio degli astri
Placida il sen misterioso apría.
Abbandonati a la quíete immensa
Vaporavan la dolce anima i fiori:
Pispigliavano l’erbe, ed al passaggio
D’innamorati spiriti anelava
Trepida pe’ silenzj ampj la selva.
A quell’ora, fra quelle ombre a lei sacre,
Nel primo bacio dell’amato sposo
S’era a lei rivelato gran mistero
Della vita; or l’essenza alta, che il sonno
Ha del suo sposo e di sè stessa ucciso,
Alle sacre ombre singhiozzando chiede.
Levò gli occhi piangenti; e grandi e chiare
Sul suo capo mirando arder le sette
Gemme che d’Oríon fregiano il regno:
0 Gigante, implorò, tu che con sette
Anime indaghi il dolor nostro immenso,
Pietà, prego, di noi: tu che di tanti
Tesori abbondi, non avrai nel tuo
Regno l’essenza, onde il mio sposo affanna?
Aspettando vegliò; pallido e bianco
Il Gigante si fece, e come assorto
In un mesto pensier, nel vaporoso
Velo nascose il regal capo, e tacque.
III.
Non però tacque d’Amatea nel core
Il tormentoso desiderio. Informe
Sorgea dal mar la moribonda luna,
E come bocca di fornace un rosso
Vampo gittava alle cineree nubi,
Che in torvi gruppi le facean corteo.
Ma candida su queste e rilucente
Qual polito adamante alto si libra
Venere, e poi che amor la rende audace,
Con intrepida fronte il sole aspetta.
Per la ripida china allor discese
La derelitta, e giuuta al pian si assise.
Silenziosa, sconfinatamente,
Vedova d’opre si stendea la valle,
Che frastagliata da purpuree lave
Qua e là d’iridate erbe ridea.
Ella pensò: Fra le mie braccia un giorno
lo qui vidi offuscar l’amato volto,
Qui lo vidi affisar pallido il vuoto,
E qui vidi tremando i suoi sbarrati
Occhi soavi scintillar di pianto.
Che sia qui la fatal gemma sepolta
Che può darmi la pace?
Una spelonca
(Orecchio alto e discreto, onde al materno
Cor della Terra giungono le voci
Dell’umano dolore) a lei da presso
Vaneggiava muscosa e da rampanti
Edre e da felci ferruginee cinta.
Entrò cauta e perplessa la meschina.
E poi ch’era di muschj e di licheni
Molle e soffice il suol, non del suo passo
Ma del suo core i ratti moti udía.
Si soffermò dove più greve e tetra
Pendea sul capo la pomicea volta,
Ed al perpetuo distillar del masso
Più lubrico e scosceso era il terreno;
E là con voce sospirosa: 0 Terra
Veneranda, invocò, se cura alcuna
Mai de’ tuoi figli e di te stessa avesti,
Non disdegnar la mia preghiera, ed abbi
Pietà di noi. Tu ch’a l’uccel ferito
Insegni, o madre, la balsamica erba,
Un conforto a me reca, e la sostanza
Alta mi porgi, onde il mio sposo affanna!
Echeggiò pel sonoro antro la voce
De la meschina, ma risposta o segno
Di pietà la meschina indarno attese.
IV.
Splendea vasto il merigge, allor che oppressa
Dal crescente dolor la derelitta
Giunse con occhi lagrimosi al mare.
Odoravan le piagge; e con l’enorme
Testa appoggiata alla marmorea rada
L’azzurro mostro placido dormía.
Sorgeva al misurato ampio respiro
In onde eguali il vasto petto, sparso
Di bronzine alghe e di sanguigni ricci,
Mentre di vaghi fremiti (che dolce
Sogno il mostro sognava?) i cristallini
Spechi e l’aure e le sponde erano vivi.
Ella al mare parlò: Padre, che tutte
Sai le umane venture, a te mi volgo
In quest’ora suprema, e genuflessa
Un consiglio ti chiedo: ove, ove mai
Troverò la sostanza alta, che il mio
Sposo a me renda e al nostro cor la pace?
Misera! e dovrò sempre in vane inchieste
Affaticar l’anima, un di si chiara
Nella gloria d’amore ed or si fosea?
Serba i tesori che nel sen tu celi
A’ men tristi di me: sol che mi assènti
Una speranza, o padre, a questo lido
Vigile aspetterò fin che appassite
Cadan le bianche e le vermiglie rose
Del corpo mio, fin che canuto e raro
Facciasi il crin ch’ora si folto oreggia;
Se recondita giace entro al tuo seno
La fatal gemma, ed è destin che questa
Gracile man deva al tuo sen rapirla,
Nel tuo sen profondarmi ecco non tremo!
Sorse a tali parole a fior dell’onde
Una candida forma indefinita,
E tacita, con lento atto, a la mesta,
Tutta in lei fisa, di venir fe’ cenno.
Confidente ella mosse, e al mar discese:
Abbrividi fin dentro il core al freddo
Bacio del flutto, e con un picciol grido
Tese al fantasma candido le mani,
Destossi il mare, e nelle grandi, azzurre
Braccia pietoso la dolente accolse.