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A te della turba affannosa
     Si levano i cigli stupiti;
     E il ciel, che si tinge di rosa,
     Tu, calma, agl’indocili additi.

«O stella che il baratro indori,
     Or ch’alto baleni a’ nostri occhi,
     AI cielo s’innalzano i cori,
     Si piegan tremando i ginocchi.

Non forse l’arcana parola
     Che sciolga l’incanto ne rechi?
     Non puoi del futuro tu sola
     La luce sorridere a’ ciechi?

Audaci! E tentammo col gramo
     Pensier l’ineffabile Enigma!
     Ne’ cori ancor l’ombra ne abbiamo,
     Ne abbiam su le fronti lo stigma.

Che giova, tapini, l’assalto
     De l’irto castello del Vero,
     Se occulta, recondita è in alto
     La chiave del ferreo Mistero?

Osammo; or dell’opera truce
     Ricevi, tu buona, l’ammenda:
     Su noi de la Fede la luce,
     Qual niveo lenzuolo, si stenda!»

E mentre pentita fra’ dumi
     L’invalida folla si atterra,
     Si popola il cielo di numi,
     Di biechi padroni la terra.


III.


     «O macera stirpe schernita,
A cui mille vampiri apron le vene,

     Che fabbrichi, in odio alla vita,
Spade a’ tiranni, a’ polsi tuoi catene;

     Tu ch’ebbra d’un mistico errore,
Dài retaggio a’ tuoi figli il proprio danno,
     Mangiando, qual pane, il dolore,
Bevendo, come vin pretto, l’inganno;

     Io teco nell’ombre cresciuta,
Del tuo sangue nutrita e del tuo pianto,
     Non morta per empia cicuta,
Non da ceppi o da roghi il petto affranto,

     Io, vera de’ secoli erede,
Guidar ti posso a’ valichi sublimi,
     Io sola redimerti ho fede,
L’ardua chiostra spezzando in cui ti adimi.

     Impero d’inferni e di cieli
Speri indarno che t’offra: io l’ho distrutto;
     (Oh improvvido senno, se aneli
Sovvertir l’alta idea ch’anima il Tutto!)

     Ma il ciel della vita, ma il regno
Della terra e del mar ben t’è concesso,
     Pur ch’entro al benefico segno
Il tuo conscio pensier domi sè stesso.

     Non armi, non odj: la face,
Ch’arde nella mia destra e cresce a’ venti,
     È raggio d’amore e di pace,
Giustizia e libertà reca a’ volenti.

     O stirpe rejetta, chè stai?
Così dal mondo ogn’altro mal dilegui,
     Fu l’onta e lo spasimo assai:
La Scíenza son io, sorgi e mi segui!»


DON JOSÈ.


I.


     Se da questo fiorito èremo torna
Il mio pensiero a’ combattuti campi,
Ove, nel sole de’ begli anni, invaso
D’un’Idea santa, perigliai la vita,
Più quest’io non ravviso, a cui l’aspetto
D’un bimbo infermo o d’un uccel ferito
Conturba di pietose ombre la mente.
Io mi avvolsi fra l’armi? Io l’arte appresi
Di trucidar? L’uman sangue versai?
E lode n’ebbi? E non più saggio, onesto
Ed umano mi tengo; un dente acuto
Penetra le mie fibre intime, e un lungo
Incubo la mia tetra anima opprime.
Pur, se a te miro, o Libertà, suprema
Luce al pensiero de’ mortali; e l’ombre
Di cui ti assiepa, e i nodi onde ti attorce
Venale industria e prepotenza abjetta
Fremendo osservo, allor vile mi sembra
Questa mia pace, e il proprio e l’altrui sangne
Per te, divina, verserei di nuovo.


II.


     Tu mi dèsti, Arianna, il tenue filo,
Onde già fra dedalei avvolgimenti
Penetrai baldo e il Minotauro uccisi;
Tu la pronuba face, onde pe’ flutti
Giunsi illeso al tuo bacio, Ero, accendesti.

Ma poi che inaridì, come giacinto
Mòrso dal gel, la giovinezza mia;
E come frana minacciosa pende
Sul mio capo la rigida vecchiezza,
Ha smarrito il suo fil la mia ragione;
Il suo faro d’amore ha il cor perduto:
Per tenebrose ambagi erro; in ricordi
Vani mi attardo; e a me voraci intorno
Bollono i flutti; e il polo oscuro è presso.


III.


     Ai palagi incantati, a’ cristallini
Rivi, di fate e di sirene albergo,
A’ gemmati antri, a’ mistici giardini
Volsi, animoso paladino, il tergo.

     Vinta la chiostra degli erculei fini,
In climi inesplorati ecco m’immergo;
E di mostri terrestri e di marini
Fatta strage, agli eroi grandi mi attergo.

     Ed or la terra è mia; libero s’alza
L’animo al cielo; splendida la fronte
Sta contr’a’ numi e contro al fato eretta.

     Ma se appare una vela a l’orizzonte,
Se ondeggia a l’aure un dolce canto, balza
Trepido il cor che la sua pace aspetta.