Piccolo mondo moderno/Capitolo sesto. Vena di fonte alta/III
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Vena di fonte alta
III
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III.
Quella sera stessa, molto più tardi, scrisse al suo avvocato per chiedergli un colloquio. Era una notte afosa, in
casa si soffocava. Piero sentiva che se si fosse coricato non avrebbe potuto, un po’ per il caldo, un po’ per l’agitazione,
pigliare sonno. Risolse di recar egli stesso il biglietto alla Posta. Ma prima tolse dalla valigia e rilesse
per la centesima volta la carta d’affari trovata nel portafogli, che gli era stata causa di scrivere all’avvocato.
Era una lettera di sua madre incominciata a scrivere il 17 gennaio 1862, nove giorni prima che morisse, e non
finita, nella quale affidava ad una cara amica l’incarico d’informare suo figlio, quand’ella venisse a morte durante
l’infanzia di lui, che a detta del povero suo padre la sostanza Maironi aveva origine da una lite mal vinta
contro l’Ospitale Maggiore di Milano. Le ultime parole della lettera interrotta erano queste: “Io spero...„. Certo,
ell’aveva sperato in un cuor fiero e forte del figlio suo. E il figlio suo si proponeva di conferire, l’indomani, con
l’avvocato X per incaricarlo di ricerche nell’Archivio dell’Ospitale Maggiore circa questa lite con la famiglia
Maironi e, in quanto fosse possibile, di un platonico giudizio di appello. Delle proprie intenzioni nel caso che il
giudizio riescisse favorevole all’Ospitale, nè scrisse nè intendeva parlarne all’avvocato.
Si recò alla Posta dopo le undici. Il cielo era minaccioso, le strade vuote risuonavano al suo passo nello scarso lume dei radi fanali accesi per la intera notte. Dalla Posta si avviò lentamente verso la Piazza Maggiore per un indistinto desiderio di pensare, tratto quel dado, al futuro nelle ombre della notte, in cospetto delle nuvole, fra i silenzi solenni di case dormenti, dove si sentiva più solo che nella propria camera. Aveva il senso di un imminente ingrandimento delle proprie sorti, d’una imminente, profonda trasformazione di sè, d’un prossimo compiersi dell’antico presentimento, d’un prossimo apparire della via prefissagli dall’Inconoscibile. Il cuore gli batteva, dilatato e forte, battiti di aspettazione avida incontro a questa volontaria uscita dalla ricchezza nella povertà, incontro alla dura, necessaria lotta per la vita, non disgiunta dalla lotta per l’idea. Un sottile piacere d’orgoglio gli tendeva tutte le corde del volere e dell’ardire. Si fermò serrando i pugni; avrebbe giurato che gli occhi gli lucessero. Ebbe allora il conscio senso di una essenziale deficienza di Jeanne come amante poichè amando piuttosto con lo spirito che con i sensi non aveva però potuto unificarsi con lui nel più alto, nel più profondo dell’anima sua. Le vampe dell’orgoglio, della sovreccitazione intellettuale gli assorbivano il calore della vita inferiore. Egli considerava con disprezzo superbo il pericolo di cadere, lasciando Jeanne, nelle sensualità basse, si credeva immune per sempre da quelle febbri. Lo colpì bene il ricordo della fallace sicurezza cui gli aveva dato nelle ore mistiche lo schifo delle colpe sensuali; ma perchè non avrebbe fine una volta la vicenda degli ardori e chi poteva dire che non fosse già finita?
Cacciò quel ricordo ed entrò nella deserta Piazza Maggiore in faccia alla magnificenza spettrale delle grandi occhiute logge nere che un glorioso maestro antico cinse all’opera decrepita e cieca di un confratello antichissimo, come qualche umanista potè cingere di splendore idee medioevali.
Pensò ch’era forse suo destino di abbandonare fra poco e per sempre la città onde il genio tutelare risiede in quelle meravigliose logge e nella sottile, altissima torre che vi sorge accanto e serve loro, secondo diceva Carlino Dessalle, di punto ammirativo. Venticinque anni di ricordi gli s’illuminarono nella mente, come ai moribondi il corso intero della lor vita. Rivide nel bagliore di un lampo infiniti luoghi della città congiunti a memorie indelebili, dal cortile di casa Scremin dove fanciulletto aveva giuocato col figlio dell’autentico Giacomo, al caffè dov’era condotto, le domeniche di quel tempo antico, a prendere il gelato, ai passeggi suburbani che don Paolo prediligeva, alle chiese che frequentavano insieme, al Seminario dove, per desiderio dello stesso don Paolo, aveva più volte, con vere angoscie, subìto esami di latino e d’italiano, alle stanze dei giorni più felici, dei più dolorosi e dei più aridi, agli uffici del Municipio, alla sala delle adunanze consiliari, a villa Diedo.
Villa Diedo! E Vena di Fonte Alta? E la promessa data? Farebbe una visita di poche ore, il più tardi possibile fra quindici o venti giorni, verso la metà di luglio. Sarebbe stato più opportuno astenersene poichè il legame si doveva allentare; ma la promessa? Una semplice visita, un saluto! Sì, una semplice visita, un saluto; però l’idea di questa visita, di questo saluto, che poteva essere l’ultimo, gli tolse la voglia di fantasticare più oltre.