Per me giaceasi appesa
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LXXVIII
XI
Per me giaceasi appesa
La cetra, onde si gloria
La nobile armonia del gran Tebano:
Ma sul mare alta impresa,
5E novella vittoria
Fa che ben pronto a lei stenda la mano,
E varie corde a risvegliar mi tira,
Soavi lingue dell’Aonia lira.
Begli orti, aurati tetti
10(Ben chiaro oggi si vede)
Non quetano, re d’Arno, i tuoi desiri;
Ma fin de’ tuoi diletti
È d’onor farsi erede,
A cui l’altrui vaghezza indarno aspiri;
15E così di virtù correre i campi,
Che orma a te da vicino altri non stampi.
Ecco all’Egéo d’intorno
Spandono monti e lidi
Gioconde voci ad ascoltar non use.
20Dobbiam dunque in tal giorno
Al suon di tanti gridi
Non rinchiuder le labbra, inclite Muse,
Ma tender archi, e far volare, o Dive,
Per l’Italico ciel saette Argive.
25Correan cerulee strade
D’Ottoman stuoli armati,
Per ira a rimirarsi orridi in faccia,
E con ritorte spade,
Le terga faretrati,
30Già faceano all’Italia aspra minaccia,
Condennando, ebbri di fallace speme,
I nocchier nostri alle miserie estreme.
Udían nostre querele,
E di nostro cordoglio
35Faceano immaginando il cor contento.
Ma popolo crudele
Non sa, che umano orgoglio
Suole aver da vicino il pentimento;
E che nell’alto dal monarca eterno
40I superbi pensier prendonsi a schierno.
Rideano, ed improvviso
Ecco prore Tirrene
Ai venti care e non men care all’onde:
Quinci, sbandito il riso,
45Trasser dure catene
Quegli empj, di Livorno in sulle sponde;
E crebber lagrimando alteri pregi
D’Arno vittorïoso ai Duci egregi.
D’augelli infra le piume,
50Quale è d’aquila il morso,
O qual de’ pesci entro i salati regni
Delfino ha per costume
Far strazio: tale in corso
Del magnanimo Cosmo or sono i legni;
55O qual d’orrida tigre ed unghia e denti
Fra la viltate de’ vellosi armenti.
Di piaghe alcun non dica;
Che bella rimembranza
D’un trofeo raddolcisce anco la morte;
60Ed è parola antica,
Che col sangue s’avanza
Chi nell’armi desía nome di forte;
E sa ciascun, che i cavalier sublimi
Son tra gli assalti a trovar morte i primi.