Pensieri e discorsi/La ginestra/XIV

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La ginestra - XIII L'èra nuova
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XIV.


Questo dice Giacomo Leopardi nel suo poema postumo. Che egli dica il vero non voglio affermare nè negare. Ma consideriamo. Egli è un precursore. Egli dopo la caduta dell’impero Napoleonico e prima d’ogni moto italico prorompeva nel suo fatidico grido:

l’armi, qua l’armi!

preannunziando Vittorio Emanuele e Garibaldi. Ma andava anche più lungi. Egli prima ancora che l’Italia si fosse cominciata a fare, sentiva il rumore d’una marea lontana. Quella che noi ascoltiamo ora con profondo terrore, con profonda tristezza, con profonda dubbiezza, egli la sentiva allora.

L’Italia è fatta, e sui nostri capi passa il presentimento d’un disastro; d’un disastro che sta per cogliere il genere umano; d’un disastro contro il quale, aver fatta l’Italia è per noi come per il contadino aver messo al coperto il grano avanti la minaccia d’un temporale che porterà via la casa e tutto.

Egli lo provava sin d’allora questo medesimo presentimento, e gittava, anche per questo, il suo grido fatidico: Non incolpate, o uomini, gli uomini delle vostre miserie! Abbracciatevi, o stolti: amatevi!

Egli c’invitava a salir con lui a quell’altezza di [p. 107 modifica]pensiero e di dolore dalla quale chi abbassa lo sguardo, non vede che simili.

Ci siamo noi ancora saliti?

Ad ogni modo, io sento che questa è parola che l’umanità deve tesaurizzare, perchè è fatta per sopire l’odio. Ve n’è un’altra, di parole, che ha questo medesimo fine, sebbene venga da tutt’altre premesse. La parola della disperazione e quella della speranza somigliano. Si può solo disputare, quale sia per avere maggior efficacia; ma somigliano.

Io ricordo che per me (non sembri irriverente qui un mio ricordo di fanciullezza) prima che la ginestra fosse il fiore del deserto, il fiore della negazione, era quello che in più gran copia mietevamo, noi fanciulli, per i greppi d’Urbino, nelle feste religiose dell’estate. Quei giorni portavamo nelle nostre passeggiate pomeridiane, dopo la benedizione celebrata nella chiesa del collegio con tanti ceri e fiori e suoni e canti, un non so che di dolce e di solenne, di tenero e di nuovo, come un profumo d’incenso, un’eco di inni, nel nostro cuore pio. Spogliavamo le ginestre, nel nostro cammino, a gara; poi tutti insieme nella strada maestra dipingevamo con gli odorosi petali d’oro una ghirlanda, con in mezzo le sigle così ingenue e grandi: I. M. I. Chi doveva porre il piede su quel tappeto di gloria, fatto da fanciulli, tessuto di fior di ginestra? Tramontava il sole dietro le Cesane e la schiera ritornava al collegio per le vie già ombrate. E il tappeto? Rimaneva là aureo in mezzo alla strada, mentre sui monti ardeva il crepuscolo.

Quando poi lessi là in quella erma terra marchigiana il poema più bello del poeta marchigiano, quando lessi: [p. 108 modifica]

Tuoi cespi solitari intorno spargi
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti,

io sentii nell’anima un profumo di religione e d’amore. Sentii quel non so che di dolce e di solenne, di tenero e di nuovo, come un profumo d’incenso, come un’eco d’inni, di cui era pieno il nostro cuore pio la sera di una festa. Il fiore era sempre quello, e a me non pareva contradizione tra queste parole che pur sono un annunzio di dolore, e altre che erano novella di gioia: tra questa apocalissi e quel vangelo.

Il fiore della ginestra pareva qua attendere nel crepuscolo il piede d’un profeta, d’un apostolo, d’un Dio lontano; là avanti la fiamma inestinguibile della natura distruggitrice, aspettare paziente la sua fine mortale. Ma ne usciva il medesimo profumo, come le due leggi si concludevano tutte e due con un insegnamento di amore, di perdono, di pace!