Pensieri e discorsi/Il fanciullino/XI
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XI.
Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. Quindi la credenza e il fatto, che il suon della cetra adunasse le pietre a far le mura della città, e animasse le piante e ammansasse le fiere della selva primordiale; e che i cantori guidassero e educassero i popoli. Le pietre, le piante, le fiere, i popoli primi, seguivano la voce dell’eterno fanciullo, d’un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d’uomini salvatici. I quali, in verità, s’ingentilivano contemplando e ascoltando la loro infanzia. Così Omero, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi, cioè nel più vero e poetico, in Achille, un tipo di tal perfezione morale, che potè servire di modello a Socrate, quando preferiva al male la morte. Così Virgilio, in tempi più gentili, avendo la mira soltanto al poetico, ci mostra lo spettacolo tanto anticipato, ahimè!, d’un’umanità buona, felice, tutta al lavoro e alle pure gioie dei figli, senza guerre e senza schiavi. Gli uomini, al suo tempo, parrebbe che avessero impetrato, ciò che è ancora il desiderio inadempiuto de’ nostri operai, le otto ore di lavoro per ogni otto di sonno e altre otto di svago. — Oh! qualche volta presso lui il contadino aggiunge la notte al giorno! — Sì: ma che dolcezza di lavoro, quella, tra l’uomo che col pennato fa il capo a spiga a suoi rami di pino, che hanno a essere fiaccole, e la donna che o tesse la tela o schiuma il paiolo cantando 1. E nell’Eneide Virgilio canta guerre e battaglie; eppure tutto il senso della mirabile epopea è in quel cinguettìo mattutino di rondini o passeri, che sveglia Evandro nella sua capanna, là dove avevano da sorgere i palazzi imperiali di Roma 2!
Ma Omero, ma Virgilio, non lo facevano apposta. Ma il poeta non deve farlo apposta. Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sè, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. È, per usare imagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell’anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l’ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso. Perchè pensi alla patria e alla società, bisogna proprio che sia un momento che tutti intorno a lui ci pensino. Se no, è un guaio serio. Quello per la mamma, è il più soave degli affetti. Ma che direste voi d’uno che facesse la cronaca, giorno per giorno, di sua mamma? Stamane s’è levata, cara mamma! Io l’ho guardata, povera mamma! M’ha dato il caffè e latte, povera cara mamma! Costui è un imbecille, quando non è uno che finga e abbia bisogno di darsi l’aria di amare quella che è così facile amare! Oh! la madre è malata, la madre è lontana, la madre è morta! Ecco che allora ci si pensa, alla mamma, e ci si strugge. Oppure la mamma ha una gran consolazione; e noi siamo più che consolati, e ci sentiamo invasi da un impeto di canto. Così per la patria. Non ci accorgiamo di lei, se non nelle sue feste e nelle sue — nostre! — disgrazie. E allora prorompe anche dal cuore del fanciullo il grido di gioia e il grido di dolore; ed è grido che ha sùbito mille echi. Ma il bambino non è un bambino che s’impanchi a far lezione quotidiana d’amor patrio o d’amor paterno e materno ai suoi fratellini, e anzi ai suoi zii e nonni. Chi pretende che faccia questo, vuole che il vispo fanciullo sia un vecchio noioso; vuole, insomma, che non esista la poesia. Perchè la poesia, costretta a essere poesia sociale, poesia civile, poesia patriottica, intristisce sui libri, avvizzisce nell’aria chiusa della scuola, e finalmente ammala di retorica, e muore. E noi di questa pseudopoesia ne abbiamo tanta, sin da quando, morto Virgilio, invecchiando Orazio, chiusa la grande rivoluzione che cominciò, si può dire, e finì con la morte di due donne, di Giulia e di Cleopatra, la figlia e l’amante di Cesare; ebbene i corvi, quali Pindaro li avrebbe chiamati, si gettarono gracchiando sull’immenso campo di battaglia, per beccare non occhi di uccisi, ma semi di poesia. E che facevano essi? Raccontavano un fatto storico, di quelli ultimi; lo condivano con declamazioni, esclamazioni, maledizioni; e lo mettevano in esametri. Ma anch’essi capivano che non bastano i versi a far poesia: e perciò incorniciavano la loro storia verseggiata e declamata con una descrizione di alba e un’altra di tramonto; e il poema era fatto 3. Ecco Giulio Montano. Questi era un poeta come tant’altri. A ogni tratto inseriva albe e tramonti. Pertanto, poichè un tale s’era seccato ch’egli avesse recitato per tutto un giorno, e diceva che non si doveva andare alle sue recite; Natta Pinario esclamò: "O che io posso essere più condiscendente con lui? Io sono pronto a starlo a sentire da un’alba a un tramonto!„ Voleva dire, il buon Natta, che la seccaggine sarebbe durata poco, e che dopo due o tre versi esso poteva andare pei fatti suoi 4. È inutile. Già Orazio ammoniva che non bastavano le descrizioncelle, le digressioncelle, le belle toppe rosse e gialle, per far di prosa poesia 5. Bisogna che il fatto storico, se vuol divenir poetico, filtri attraverso la maraviglia e l’ingenuità della nostra anima fanciulla, se la conserviamo ancora. Bisogna allontanare il fatto vicino allontanandocene noi 6. Volete una prova a cui distinguere la poesia dalla pseudopoesia, in siffatto genere storico? Se la narrazione, che il verseggiatore vi fa, vi commuove meno che la stessa, fatta in prosa, dallo storico e dal cronista, dite pure che il verseggiatore ha tradotto, e male; non ha poetato. E ha perduto il suo tempo e ha fatto perdere a noi il nostro.
Note
- ↑ Plat. Apol. 28 B. sqq. Georg. 1, 291 sqq.
- ↑ Aen. 8, 155 sqq.
- ↑ Sen. Ep. 122, 11: cf. Apoc. 2.
- ↑ Sen. Ep. 122, 11. E continua a leggere il fattarello che segue. Montano avendo subito cominciato con un’alba: “Febo comincia a metter fuori le ardenti fiamme, e il dì rosseggiante a spargersi per la terra; e già la rondine triste comincia a recare ai garruli nidi il cibo, con assiduo va e vieni, e a somministrarlo bene scompartito col molle becco„; un tal Varo eclama: È l’ora che Buta va a letto. Perchè Buta era un fuggi-luce, un vivi-al-lume-di-lucerna, uno insomma, che faceva di notte giorno. Di lì a poco, Montano declamava: “Già i pastori ricoverarono nella stalla i loro armenti; già la notte cominciava a dare il nero silenzio alle terre assopite„. E Varo: “Che dice? È già notte. Andrò a fare la salutazione mattinale a Buta„.
- ↑ AP. 15 sqq.
- ↑ Avete un binocolo? Puntatelo verso una campagna, verso una casa, verso un borgo. Guardate per il suo verso: ecco la prosa. Guardate all’in contrario: ecco la poesia. Più particolari nella prima e meglio distinti. Più visione nella seconda e più... poesia. Provate!