Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura/4107

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[p. 25 modifica] senz’alcuna ferocia, né misantropia né rancore né risentimento, senza neppure egoismo, quell’anima, già poco prima sí tenera, è insensibile alle lagrime, inaccessibile [p. 26 modifica]alla compassione. Si moverà anche a soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell’anima la piú grande e fertile per natura.

Questo medesimo effetto che produce la infelicità, lo produce, come ho detto, l’abito di non provare o non vedersi d’innanzi alcuna apparenza di felicità, alcun dolce futuro, alcun piacere grande o piccolo, alcuna fortuna della giornata o durevole, alcuna carezza e lusinga degli uomini o delle cose. L’amor proprio non mai lusingato, si distacca inevitabilmente dalle cose e dagli uomini (fosse pur sommamente filantropo e tenero), e l’uomo, abituandosi a non veder nella vita e nel mondo nulla per se, si abitua a non interessarvisi, e tutto divenendogli indifferente, il piú gran genio diventa sterile e incapace anche di quello di cui sono capacissimi gli animi per natura piú poveri, infecondi, secchi ed inetti (29 giugno, festa di S. Pietro, giorno mio natalizio, 1824). Il che sempre piú privandolo d’ogni illusione e successo dell’amor proprio, sempre piú conferma in lui l’abito di noncuranza, e d’inettitudine e spiacevolezza. Trista condizione del genio, tanto piú facile a cadere in questo stato (che certo