Pensieri (Leopardi)/XIX
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XIX.
V’ha alcune poche persone al mondo, condannate a riuscir male cogli uomini in ogni cosa, a cagione che, non per inesperienza né per poca cognizione della vita sociale, ma per una loro natura immutabile, non sanno lasciare una certa semplicitá di modi, privi di quelle apparenze e di non so che mentito ed artifiziato, che tutti gli altri, anche senza punto avvedersene, ed anche gli sciocchi, usano ed hanno sempre nei modi loro, e che è in loro e ad essi medesimi malagevolissimo a distinguere dal naturale. Quelli ch’io dico, essendo visibilmente diversi dagli altri, come riputati inabili alle cose del mondo, sono vilipesi e trattati male anco dagl’inferiori, e poco ascoltati o ubbiditi dai dipendenti: perché tutti si tengono da piú di loro, e li mirano con alterigia. Ognuno che ha a fare con essi tenta d’ingannarli e di danneggiarli a profitto proprio piú che non farebbe con altri, credendo la cosa piú facile, e poterlo fare impunemente: onde da tutte le parti è mancato loro di fede, e usate soverchierie, e conteso il giusto e il dovuto. In qualunque concorrenza sono superati, anche da molto inferiori a loro, non solo d’ingegno o d’altre qualitá intrinseche, ma di quelle che il mondo conosce ed apprezza maggiormente, come bellezza, gioventú, forza, coraggio ed anche ricchezza. Finalmente qualunque sia il loro stato nella societá, non possono ottenere quel grado di considerazione che ottengono gli erbaiuoli e i facchini. Ed è ragione in qualche modo; perché non è piccolo difetto o svantaggio di natura, non potere apprendere quello che anche gli stolidi apprendono facilissimamente, cioè quell’arte che sola fa parere uomini gli uomini ed i fanciulli: non potere, dico, non ostante ogni sforzo. Poiché questi tali, quantunque di natura inclinati al bene, pure conoscendo la vita e gli uomini meglio di molti altri, non sono punto, come talora paiono, piú buoni di quello che sia lecito essere senza meritare l’obbrobrio di questo titolo; e sono privi delle maniere del mondo non per bontá, o per elezione propria, ma perché ogni loro desiderio e studio d’apprenderle ritorna vano. Sicché ad essi non resta altro, se non adattare l’animo alla loro sorte, e guardarsi soprattutto di non voler nascondere o dissimulare quella schiettezza e quel fare naturale ch’è loro proprio: perché mai non riescono cosí male, né cosí ridicoli, come quando affettano l’affettazione ordinaria degli altri.