Panegirico di Plinio a Trajano/VIII
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Ma, di quanti luttuosi mali dei nostri tempi ho annoverati finora, non mi è già caduto in pensiero d’incolparne i miseri cittadini. Ah! no: conseguenza necessaria e funesta era quella delle infami ed inique signorie; come necessaria e fausta conseguenza della divina libertà, dovean essere, ed erano, le sopra accennate virtù.
E già io, di baldanzosa speme, e di profetico spirto ripieno, antiveggo qual debba fra non molti anni, per la restituita libertà, risorgere la Roma novella, e per infiniti secoli terrore e ammirazione alle genti poi crescere, e mantenersi. Più che convinto oramai è Trajano, che il volere sotto il dominio assoluto di un solo continuar la città, egli è un volerla intieramente distruggere. Non, s’egli eterno vivesse; non, s’egli un altro Trajano a governarci lasciasse; e successivamente, e sempre, altri Trajani assumere si potessero all’impero; non certo allora ridomandare si udrebbe libertà dai Romani; poichè, o piena l’avrebbero, o così mite sarebbe il servire, che, tranne l’altezza e la energia dell’animo, tutti i rimanenti beni della libertà si godrebbero. Ma, la impossibilità di tal cosa, il pericolo estremo, che anche l’ottimo principe porta sempre con se, di essere dalla propria illimitata potenza tradito e corrotto; quel nobile diffidar di se stesso e dei proprj lumi, in chi maggiori gli ha, più frequente; tutto, tutto addita a Trajano, che la gloria, la sicurezza, e la vita di Roma non si dee nè affidare, nè riporre, in un solo. Trajano sa, e vede, che il potere uno più di tutti, senza che tutti, ove egli ingiustamente voglia, contra quell’uno difender si possano, ella è cosa contraria al retto, alla felicità, al buon ordine, alla natura. Nè mai vien creato quest’uno, se non dal delirio di tutti e dal guasto loro animo, o per l’arte e fraude di esso; nè mai mantenuto vien egli, se non dal timore di tutti o dei molti, e dalla usurpata eccessiva forza di lui.
Ed in prova, il console, legittimo principe, eletto, ed a tempo, di dodici littori soltanto, e più a pompa che a difesa, muniva la propria persona e dignità: l’imperatore perpetuo ed unico, creato non mai dal volere di tutti, figlio non delle leggi, ma della forza; l’imperatore munisce e corrobora con gli eserciti interi la illegittima autorità non ben sua; e dietro essi difende la sua tremante odïosa persona. I consoli, venerati sempre; stimati, se il meritavano; temuti, ma non più delle leggi; mai non si udiva che uccisi, altro che in battaglia per mano dei nemici, cadessero: gl’imperatori, o barbaramente svenati dagli stessi loro eserciti, o giustamente dagli adirati e oppressi lor cittadini, ben ampia fede ne fanno, che l’assoluto e perpetuo potere di un solo, non è mai legittimo, poichè la forza sola il mantiene; e che sopportabile non è lungamente egli mai, poichè il giusto furore che di tempo in tempo negli animi di chi vi soggiace si va riaccendendo, mal grado il timore e la forza, lo abbatte pure, e distrugge.