crezio; non rare in Catullo; non piú di sette, che io me ne ricordi, in Virgilio; e una sola in Orazio, né forse una in Ovidio. Or quante, se pur taluna è da trovarne in Lucano, e gli altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo strepitosissimo Claudiano? Ben diresti che la Divina Commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de’ versi, avveniva piú presto in Italia che altrove; perché il Petrarca aveva temprato l’orecchio alla prosodia provenzale sonora di finali tronche piú che la siciliana, che a Dante veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu scritta, né mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all’occhio. Il danno della parola dissonante dalla scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un tempo (cioè la francese, l’inglese ec.), è minore della sciagura che toccò alla italiana, destinata anzi all’arte degli scrittori, che alla mente della nazione (vuol dire, scritta e non parlata, né scritta pel popolo). A questo i tempi, quando mai la facciano parlata da un popolo, provvederanno. Per ora il potersi scrivere cosí che ogni segno alfabetico sia elemento essenziale del senso e del suono in ogni vocabolo, rimane pur quasi vantaggio su le altre sino da’ giorni di Dante. Onde mi proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie primitive, e alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non parlate, (4388) si rimane letteraria, permanente nelle apparenze, e svincolata de’ suoni accidentali e mutabili d’età in età nelle lingue popolari (francese, inglese ec.), e ne’ dialetti municipali. Forse cosí la lezione della Divina Commedia, perdendo i vezzi di fiorentina ritornerà schietta e italiana. Fine del discorso (Firenze, domenica, 21 settembre 1828). Vedi p. 4487.