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(3496-3497-3498) | pensieri | 423 |
l’umanità e la divinità, di quel che a comporre i due sessi umani, il maschio e la femmina, negl’immaginari ermafroditi; quasi l’umano e il divino fossero, non altrimenti che il virile e il donnesco, due diverse specie, per dir cosí, d’un genere istesso, né maggior differenza o intervallo (3497) o distinzion di natura fosse tra loro (22 settembre 1823).
* Le speranze che dà all’uomo il cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all’animo di chi si trova impediti quaggiú i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera bensí, ma 1°, che l’uomo non può comprendere, né immaginare, né pur concepire o congetturare, in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione; 2°, ch’egli sa bene di non poter mai né concepire, né immaginare, né averne veruna idea finché gli durerà questa vita; 3°, ch’egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiú gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale (3498) espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiú le sue privazioni. La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa di-