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(2836-2837-2838) pensieri 25

scritta, tanto esiste della lingua quanto è nell’uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori, che ancora non vi sono stati. Togliere piú che tante parole o forme da quella lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl’italiani avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto piú che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può, perché, quando nasce la letteratura  (2837) di una nazione, questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, cosí facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. Di piú il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in questo proposito la p. 3015. Questo medesimo vale anche per le parole della stessa lingua, rimote piú che tanto dall’uso comune, sia per disuso (seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando fin allora gli scrittori), sia per qualsivoglia altra cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benché scritto in volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o di forme basta ad eccedere la capacità de’ totalmente ignoranti, quali sono allora quasi tutti, e degli a tutt’altro avvezzi che allo studio. Ho dunque detto altrove che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e sempre o per lo piú, sí nella lingua sí nello stile, tirano al familiare. E questo viene, sí per adattarsi alla capacità della nazione, sí perchè, mancando loro, come s’é detto, la principal materia dell’eleganza  (2838) di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e non volendo che questa ripugni e di-