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206 | pensieri | (3140-3141) |
Patroclo), e a mescolare i loro lamenti con quelli di Andromaca e della desolata città nemica, già vicina all’ultima calamità, che, per cosí dire, le loro proprie armi o i loro proprii eserciti gli avevano infatti recata. Sublimissimo effetto concepito, disegnato e prodotto da Omero in tempi feroci e semibarbari, e non saputo concepire né produrre da verun altro epico in tempi civili. Perocché, temendo di raddoppiar l’interesse (ch’era appunto ciò che avevano a fare, e senza il che non era possibile quel divino effetto), evitarono espressamente e studiosamente di fare in modo che la parte nemica o alcun personaggio di essa riuscisse piú che tanto virtuoso o per qualunque lato interessante sino al fine. E maggiormente si guardarono di sempre ugualmente condurre e in ultimo annodare le fila della loro epopea tanto all’esito (3141) dell’Eroe vittorioso quanto a quello di un altro Eroe a lui per molti lati pari e seco lui compensabile e comparabile ma soccombente. Come fece Omero, perché nell’Iliade Ettore è, e fu voluto rappresentare, espressamente comparabile ad Achille.
Turno non occupa se non pochissima parte dell’Eneide, e riesce cosí poco interessante che certo la sua sventura e morte non ha mai tratto ad alcuno un sospiro. Gli Eroi de’ barbari nella Gerusalemme sono appostatamente piú d’uno e di ugualissimo pregio,1 sicché l’interesse non si determina per alcuno di loro, né della loro morte o calamità niuno si compiange, né a veruna di queste morti o calamità tendono le fila del poema. Di piú il Tasso, stante lo spirito del suo tempo, e stante che in quel caso pareva che la religione interdicesse, come suole, e confondesse colla empietà l’imparzialità, non poté a meno