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(3116-3117-3118) pensieri 193

soddisfa e gode disprezzando il nimico e privandolo d’ogni qualsivoglia stima, che sforzandolo e vincendolo, e quasi piuttosto eleggerebbe di soccombergli che di lodarlo. Una tal disposizione offriva poche risorse, poca varietà, poco campo di passioni al poema epico. Omero ebbe l’arte di fare che i greci si contentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e fece loro provare il piacere, a quei tempi ignoto o rarissimo, di vantarsi e compiacersi  (3117) di una vittoria riportata sopra un nemico nobile e valoroso. Questo piacere fu veramente Omero che lo concepí, Omero che lo produsse; ei non era proprio de’ tempi, non nasceva dalla maniera di pensare e dalle disposizioni di quegli uomini, ma nacque dalla poesia d’Omero; Omero, per dir cosí, ne fu l’inventore. Questo gli diede campo di moltiplicare e intrecciar gl’interessi, di variar le passioni e gli effetti cagionati dal suo poema nell’animo de’ lettori.


    Come la stima, cosí la compassione verso il nimico, ancorché vinto e virtuoso, era impropria di quei tempi (vedi quello che altrove ho detto in proposito d’un’azione d’Enea appo Virgilio, dopo morto Pallante). Gli animi naturali non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche), nasce bensí, come di sopra ho detto,  (3118) dall’egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria né degli animali, né degli uomini in natura, né anche, se non di rado e scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali erano i piú a’ tempi eroici). Questo piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti, e persuadersi che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benché realmente essa riverberi tutta ed operi in se stesso e a