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(2760-2761-2762) pensieri 417

ginocchia lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo, risponde che, morto Pallante, non ha piú luogo co’ Rutuli alcuna misericordia né alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la celata gl’immerge la spada dietro al collo per insino all’elsa. Questa scena e questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso da Agamennone, che senza alcuna pietà uccide il troiano già vinto e supplichevole.  (2761)


*   Ma chiunque bene osservi vedrà che siccome questa scena riesce naturalissima e conveniente in Omero, cosí riesce forzatissima e fuor di luogo in Virgilio, e ripugna all’idea che il lettore si era formato sí del carattere di Enea, sí della virtú eroica generalmente, dietro alle tracce di quel poema: anzi, dirò anche, ripugna all’idea che se n’era formata lo stesso Virgilio. E tutto quel luogo del suo decimo libro, dov’Enea fa lo spietato e il terribile, si riconosce a prima giunta per tirato d’altronde (cioè dall’imitazione d’Omero, e dal carattere eroico-omerico), alieno dall’indole del poema e dell’eroe, alieno dal concetto medesimo di Virgilio: tanto che quella che si chiama inumanità sembra in quel luogo come affettata da Enea, ed ascitizia, e quasi finta e par ch’egli ci sia inesperto e non la sappia esercitare; laddove negli eroi di Omero  (2762) ella par vera e propria e che venga loro da natura.

La ragione si è che Omero e tutti quei del suo tempo concepivano l’inumanità verso i nemici come appartenente alla virtú eroica, come parte, come debito della medesima, e tanto è lungi che la tenessero per colpa o eccesso, che anzi la stimavano una dote e un attributo degno e proprio dell’eroe; ed intendevano di lodar quello a cui l’attribuivano; e l’attribuivano ed esageravano, volendo lodare, eziandio a

Leopardi. — Pensieri, IV. 27