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(2718-2719-2720) | pensieri | 395 |
si scostarono dalla maniera propria per seguire e imitare l’altrui. Ma certo chi non conoscesse altra lingua greca che la consueta di Platone, non senza una certa difficoltà potrebbe intendere quelle tre orazioni (23 maggio 1823).
* Alla p. 2699. Di quelli scrittori del Trecento che usarono lingua piú illustre e comune, o manco plebea e provinciale o municipale, vedi Perticari (2719) Degli Scrittori del Trecento, l. II, c. 6. È da notare che molte differenze che s’incontrano in questi scrittori fra la loro lingua e la presente non sono da attribuire alla lingua di quel secolo. Ma elle sono tutte proprie degli scrittori medesimi. I quali in quei primi cominciamenti della nostra lingua illustre, in quella scarsezza di esempi, e quindi di regole della lingua volgare scritta, seguirono quali una strada e quali un’altra, sí nel trovare o crear le voci ai dati oggetti, sí nel collegarle, come quelli ch’erano i primi; e spesso per mancanza d’arte, per cattivo gusto, per povertà di voci o di modi propria loro o della lingua, per vaghezza di novità o per sola ignoranza e poca conoscenza della loro stessa lingua, scritta o parlata, e per non sapere scrivere, divisero le loro scritture dalla lingua parlata molto piú che non si doveva, o in quelle cose e in quelle guise che non si doveva; non volendo esser plebei, furono qua e là mostri di locuzione; non sapendo esprimersi inventarono parole e forme tutte loro, tutte barbare; introdussero nelle scritture molti vocaboli e modi latini o provenzali durissimi e (2720) ripugnanti all’indole della favella comune o particolare, illustre o plebea, di quel medesimo secolo. Della qual favella pertanto in queste cose non si può né si dee fare argomento da quelle scritture. Perché quelle mostruosità e stranezze, che noi crediamo e chiamiamo comunemente arcaismi, come non si parlano ora né si scrivono, cosí non furono