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302 pensieri (2549-2550-2551)

nienza e in dispetto della convenienza, e quindi del vero, proprio e preciso bello (4 luglio 1822).


*   La quistione se il suicidio giovi o non giovi all’uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa,  (2550) immutabile e perpetua che l’uomo in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacché, come ho dimostrato altrove, il piacere è sempre futuro e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev’essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, cosí anche ciascuno deve esser certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i cosí detti infelici; poveri, malati insanabili ec. ec). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors’anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire, (giacché la natura e l’amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c’è piú grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere) ma, il godere essendo impossibile all’uomo, resta escluso necessariamente e per natura  (2551) da tutta la quistione. E si conclude ch’essendo all’uomo piú giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l’assoluto non essere giova e conviene all’uomo piú dell’essere, e che l’essere nuoce precisamente all’uomo. E però chiunque vive (tolta la religione) vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti