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124 | pensieri | (2241-2242-2243) |
e maturò alquanto il loro scrivere (10 dicembre, dí della venuta della S. Casa, 1821).
* Se la natura è oggi fatta impotente a felicitarsi, perché ha perduto il suo regno su di noi, perché dev’ella essere ancora potente ad interdirci l’uscita da quella infelicità che non viene da lei, non dipende da lei, non ubbidisce a lei, non può rimediarsi se non colla morte? S’ella non è piú l’arbitro né la regola della nostra vita, perché dev’esserlo della nostra morte? Se il suo fine è la felicità degli esseri e questo è perduto per noi vivendo, non ubbidisce meglio alla natura, non (2242) procura meglio il di lei scopo chi si libera colla morte dall’infelicità altrimenti inevitabile, di chi s’astiene di farlo, osservando il divieto naturale, che, non vivendo noi piú naturalmente né potendo piú godere della felicità prescrittaci dalla natura, manca ora affatto del suo fondamento? (10 dicembre 1821).
* Alla p. 1128, sotto il principio. Volete ancora vedere la fratellanza e il facile scambio tra la f e il v? Osservate il nostro schifare e schivare che son lo stesso e non si sa qual de’ due sia il vero, se non che schifare può sostenersi col sostantivo schifo che forse è sua radice (Crusca, schifo, add., § 3) e che non si dice schivo: cosí schifezza ec. (10 dicembre 1821).
* Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s’ella è stata al tempo suo e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta (2243) a finire, come la vita o la compagnia della persona la piú indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventú della medesima, un’usanza, un metodo di vita ec. Fuorché se questa cosa per sem-