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222 | pensieri | (1542-1543-1544) |
non sanno far nulla. Essi non hanno l’abito e quindi la facoltà dell’applicazione e dell’esecuzione propria ec. Perciò un uomo il quale (volendo seguitare l’esempio di sopra) abbia letto molti romanzi e sia d’ottimo giudizio ec. ec. può benissimo non saperne né scrivere né concepire, perché non ha l’abito (1543) dell’applicazione e del fissare la mente a tirar profitto coll’opera propria da quelle assuefazioni; non ha l’esercizio dello scrivere, né del pensare a questo fine, né del mirare a ciò nell’assuefarsi ec. ec. ec.; non ha l’abito dell’attendere e del riflettere alle minuzie, ch’è necessario per assuefarsi a porre in opera le altre assuefazioni; non ha l’abito della fatica ec. E perciò molti ancora, anzi i piú, leggono anche moltissimo, non solo senza contrarne abilità d’eseguire (ch’é insomma abilità d’imitazione) ma neppur di pensare, e senza guadagnar nulla né contrarre quasi verun’abitudine, cioè attitudine. Vedi p. 1558 (22 agosto 1821).
* Tutti piú o meno (massimamente le persone che hanno coltivato il loro intelletto e sviluppatene le qualità, e quelle che sono ammaestrate da molta esperienza ec.) concepiscono in vita loro delle idee, delle riflessioni, delle immagini ec., o nuove o sotto un nuovo aspetto, o tali insomma che bene e convenientemente espresse nella scrittura potrebbero esser utili o piacevoli e separar quello scrittore, se non altro, dal numero de’ copisti. Ma perché gl’ingegni, massime in Italia, non hanno l’abito di fissar fra se stessi, circoscrivere e chiarificare le loro idee, perciò queste restano per lo piú nella loro mente in uno stato incapace di esser consegnate e adoperate nella scrittura; e i piú, quando si mettono a scrivere, non trovando niente del loro che faccia al caso, si contentano di copiare o compilare o travestire l’altrui; e neppur si ricordano, né credono, né (1544) s’immaginano, né pensano in verun modo a quelle idee proprie che pur