Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
174 | pensieri | (765-766-767) |
sopra, e dire che la eredità che ci è pervenuta delle antiche lingue è come di beni infruttiferi, dai quali non si può né ricavare né pretendere altro servigio che dell’usarli identicamente. Ma la nostra lingua propria è un’eredità, un capitale fruttifero, che abbiamo ricevuto da’ nostri maggiori, i quali, come l’hanno fatto fruttare, cosí ce l’hanno (766) trasmesso perché facessimo altrettanto, e non mica perché lo seppellissimo come il talento del Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione, credessimo di custodirlo e difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la vegetazione, il prolificare, lo considerassimo e ce ne servissimo come di un capitale morto ec.
Osservo anche questo. Noi ci vantiamo con ragione della somma ricchezza, copia, varietà, potenza della nostra lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità, attitudine a rivestirsi di tutte le forme, prender abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili; insomma della quasi moltiplicità di lingue contenute o possibili a contenersi nella nostra favella. Ma da che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei queste qualità? Forse dalla sua primitiva ed ingenita natura ed essenza? Cosí ordinariamente si dice, ma c’inganniamo di gran lunga. Le dette qualità, le lingue non (767) le hanno mai per origine, né per natura. Tutte a presso a poco sono disposte ad acquistarle, e possono non acquistarle mai e restarsene poverissime e debolissime e impotentissime e uniformi, cioè senza né ricchezza né copia né varietà. Tale sarebbe restata la lingua nostra, senza quello ch’io dirò. Tutte lo sono nei loro principii, e non intendo mica nei loro primissimi nascimenti, ma finattanto che non sono coltivate e con molto studio ed impegno e da molti e assiduamente e per molto tempo. Quello che procura alle lingue le dette facoltà e buone qualità è principalmente (lasciando l’estensione, il