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rerebbe in quell’esperto diplomatico il merito dei servigi resi alla patria e che d’ora innanzi il suo nome suonerebbe assai tristo all’orecchio dei concittadini e degli amici. Ma comunque andasse la cosa, Vittorio Emanuele, sia da malvagi consigli, o da sua propria coscienza traviato, segnò l’atto di abdicazione (Vedi Doc. C.) nominando a reggente del regno il principe di Carignano. O notte del 13 marzo 1821! Notte fatale al mio paese, che tutti ne immergesti nello squallore, che tanti brandi levati in difesa della libertà e della patria hai spezzato e tante care speranze come un sogno hai dileguato! La patria col re non cadeva, ma questa patria era per noi nel re, anzi in Vittorio Emanuele incarnata. Gloria, successi, trionfi, tutto per noi compendiavasi in quel nome, in quella persona. Ed i giovani promotori di quella militare rivolta aveano più d’una volta esclamato: «Forse un giorno ci perdonerà d’averlo fatto re di 6 milioni di Italiani!»

Maggior sciagura non poteva colpire il Piemonte. Carlo Felice duca del Genevese, fratello del re, era assente dal regno, e Carlo Alberto... ognun sa quanta fiducia dovesse inspirarci. Sotto ben altro aspetto sarebbersi presentate le cose, regnante Vittorio Emanuele: lieta e baldanzosa l’armata non avrebbe avuto che un solo spirito; noi, affidati nella giustizia del re e nella lealtà di sua parola, avremmo veduto dileguarsi il timore di quelli affannosi giorni che succedonsi per i popoli quando sieda a capo di costituzionale reggimento re del quale sconfidino. Quella infausta abdicazione mutò lo stato nostro. La penna