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del dogma. Oramai conscio di sè, plasma il divino a sua immagine, lo colloca e lo accompagna nella storia. La Divina Commedia è capovolta: non è l’umano che s’india, è il divino che si umanizza. Il divino rinasce, ma senti che già innanzi è nato Bruno, Campanella e Vico. La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori; Foscolo solitario meditava le Grazie, Romagnosi tramandava alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815, tra il rumore de’ grandi avvenimenti, usciva in luce un libriccino intitolato Inni, al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo co’ Carmi; Manzoni apriva il suo con gl’Inni. Il Natale, la Passione, la Risurrezione, la Pentecoste erano le prime voci del secolo decimonono. Natali, Marie e Gesù ce n’erano infiniti nella vecchia letteratura, materia insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era l’ispirazione, da cui uscirono gl’Inni de’ Santi Padri e i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i templi de’ nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era passato il seicento e l’Arcadia, insino a che disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo concordato. Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una nuova ispirazione.

Ciò che move il poeta, non è la santità e il misterioso del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicità di credente. Mira a trasportarlo nell’immaginazione, e, se posso dir così, a naturalizzarlo. Non è più un credo, è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a’ contemporanei le disusate immagini, se non pomposamente decorate. Non gli basta che sieno sante; vuole che sieno belle. L’idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte, anzi come la sostanza dell’arte moderna,