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Tu non altro che il pianto avrai del figlio,
     O materna mia terra: a noi prescrisse
     Il fato illacrimata sepoltura.

L’esercizio della vita guarì Foscolo. Soldato della repubblica, combattè a Cento, alla Trebbia, a Novi, a Genova. La vita militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi A Luigia Pallavicini e All’amica risanata trovi un mondo musicale e voluttuoso, dove l’anima guarita e gioiosa si espande nella varietà della vita. La sua fama gli dà il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma di Berenice e vi appone un comento, dove fa sfoggio di una erudizione peregrina; tenta una traduzione dell’Iliade, emulo di Monti; scrive un’orazione pe’ comizi di Lione, con pomposo artificio di stile e con gravità e arditezza d’idee.

I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto a’ sommi. Fu chiamato per antonomasia l’Autore de’ Sepolcri. E in verità, questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura, l’affermazione della coscienza rifatta, dell’uomo nuovo.

Una legge della repubblica prescriveva l’uguaglianza de’ sepolcri, l’uguaglianza degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de’ sepolcri sembrava privilegio de’ nobili e de’ ricchi, e combattevano il privilegio, la distinzione delle classi, anche in quella forma. Parini dunque giacerà nella fossa comune accanto al ladro, pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria spinta fino agli ultimi corollarii gli offuscava la poesia della vita, lo riconduceva nel mondo naturale e ferino, non ancora abitato dall’uomo. Nè gli entrava quel trattar l’uomo, come un puro animale. Sentiva in sè offeso il poeta e l’uomo. Mancava l’idea religiosa che abbellisce la morte e mostra il paradiso sotto le oscure volte dell’obblio. Ma vivo era il senso dell’umanità nel suo progresso e ne’ suoi fini, collegata colla famiglia, con la patria, con la libertà,