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che non rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da così rapida vicenda di cose e di uomini, e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.

Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria, della patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano. E ancora più uno spirito guerriero che gli ruggia dentro e non trovava espansione, una forza inquieta in ozio. Giovane, pieno d’illusioni, appassionato, con tanto furore di gloria, con tanto orgoglio al di dentro, con un grande desiderio di fare e di fare grandi cose, lui, educato da Plutarco, stimolato da Alfieri, quell’ozio forzato, lo gitta violentemente in sè, gli rode l’anima. È la malattia che egli chiama nel suo Ortis con una energia piena di verità consunzione dell’anima. Lo vedi a Milano vagante, scontento, fremente, ora rinselvarsi, fantasticare, scrivere sè stesso in verso, ora giocare, donneare, contendere, far baccano. Gli balena innanzi il suicidio, ed ha appena venti anni:

Non son chi fui, perì di noi gran parte:
     Questo che avanza è sol languore e pianto.

In questa malattia di languore s’intenerisce, pensa alla madre, al fratello, alla sua lontana Zacinto, non senza certi ribollimenti, che annunziano la vigoria di una forza rosa, non doma. Alfieri a venti anni si sfogava correndo Europa, Foscolo si sfogava verseggiando. Le sue effusioni liriche sono la sua storia dai sedici a’ venti anni. Ricomparisce in quei versi una intimità dolce e malinconica di cui l’Italia avea perduta la memoria. E gli veniva non solo dal Petrarca, ma dalla terra materna, dal suo sentire grego, dalle corde eolie maritate alla grave itala cetra. Ecco versi, preludio di Giacomo Leopardi: