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denti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico, accelerò la formazione di una coscienza nazionale, ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita e nell’arte. I suoi epigrammi, le sue sentenze, i suoi motti, le sue tirate divennero proverbiali, fecero parte della pubblica educazione. Declamare tirannide e libertà venne in moda, spasso innocente allora, e più tardi, quando i tempi ingrossarono, dimostrazione politica piena di allusione a’ casi presenti. I contemporanei, applaudendo in teatro alle sue tirate, non credevano che quelle massime dovessero impegnar la coscienza, e trovavano lui che ci credeva selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della esagerazione; perchè l’esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano, smarrito il senso della realtà e della misura. Ma nelle nuove generazioni, travagliate da’ disinganni e impedite nella loro espansione, quegl’ideali tragici così vaghi e insieme così appassionati rispondevano allo stato della coscienza, e quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale, quei motti condensati come un catechismo, ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza, e ben presto parve all’Italia di avere infine il suo gran tragico pari a’ sommi. Ci era la tragedia, ma non c’era ancora il verso tragico, a sentenza de’ letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E quando fu rappresentato l’Aristodemo, il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana, di Dante il core e del suo duca il canto. E in verità di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti. Avea Dante nell’immaginazione e Virgilio nell’orecchio.

L’abate Monti, nato fra tanto fermento d’idee, ne ricevè l’impressione, come tutti gli uomini colti. Ma fu-