moderno, ma dallo studio dell’antico, congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l’antica Italia, nella sua potenza e nella sua gloria, o, com’egli dice, il sarà, è lè stato. Risvegliare negl’italiani la virtù prisca, rendere i suoi carmi sproni acuti alle nuove generazioni, sì che ritornino degne di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con Dante e col Petrarca. L’alto motivo che ispirò il patriottismo de’ due antichi toscani, divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico e messo in musica da Metastasio, ripiglia la sua serietà nell’uomo nuovo che si andava formando in Italia, e di cui Alfieri era l’espressione esagerata, a proporzioni epiche. Perchè Alfieri, realizzando in sè il tipo di Machiavelli, si avea formata un’anima politica; la patria era la sua legge, la nazione il suo Dio, la libertà la sua virtù, ed erano idee povere di contenuto, forme libere e illimitate, colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con la realtà, ne sarebbe uscito un alto patos, il vero motivo della tragedia moderna. Ma un concetto così elevato del mondo era prematuro e d’accordo col suo secolo, Alfieri non vede di tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano, la forza maggiore o il tiranno, e non lo studia e non lo comprende, ma l’odia, come la vittima il carnefice, l’odia di quell’odio feroce da giacobino, che non potendo spiegarsi e assimilarsi l’ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico, e se i giacobini avessero lette le sue tragedie, potevano dirgli: Maestro, da voi abbiamo imparato l’arte. L’uomo che glorificava il primo Bruto, uccisore de’ figli, e l’altro Bruto, uccisore di Cesare padre suo, l’uomo che non avea che parole di dispregio per Carlo I, vittima de’ repubblicani inglesi, non aveva