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di Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine, e non cercano il vero sotto i versi strani; la bella veste li appaga. I loro studii non hanno più a guida l’investigazione della verità, ma l’erudizione; c’è il sapere per il sapere, come l’arte per l’arte. I fiori, i giardini, i conviti, i tesori, dove la sapienza sacra e profana era usata a scopo morale, dànno luogo a raccolte semplicemente storiche ed erudite. Ci sono ancora gli scolastici che chiamano il Petrarca un insipiente, ma le loro querele si sperdono nel plauso universale, che pone il Petrarca accanto a Virgilio. E codesto Virgilio non è più il mago, precursore del cristianesimo, e neppure il savio che tutto seppe, ma è il dolce ed elegante poeta. Dante s’incorona da sè in paradiso poeta, profeta e apostolo; i contemporanei incoronano nel Petrarca l’autore dell’Africa, della nuova Eneide. La coltura e l’arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.
Ma la coltura e l’arte non è il naturale fiorire di un mondo interiore, anzi è accompagnata con l’infiacchirsi della coscienza, e si pone già per se stessa, come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in sè e sia a un tempo mezzo e scopo. È una coltura e un’arte formale non riscaldata abbastanza dal contenuto. Ci è lì dentro lo stesso mondo di Dante, ma c’è come ragione in lotta col sentimento e con l’immaginazione, lotta fiacca e inconcludente; scemato è il vigore della fede e della volontà.
Gli è che quel mondo mistico, fiori della natura e dell’uomo appunto per la sua esagerazione, non poteva avere alcun riscontro con la realtà. Ebbe la sua età dell’oro evocata da Dante con tanta malinconia; ma a lungo andare dovea rimaner pura teoria, ammessa per tradizione e per abitudine e contraddetta nella vita pratica. Più alto era il modello, più visibile era la contraddizione e più scandalosa. Nel secolo di Dante e di Caterina grandi sono i lamenti e le invettive per la corrut-