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opera Antonini, Hieronymi de Valentia, Bartholomei de Pisis. Queste analogie sembreranno anche più considerevoli a chi percorra anche i soli titoli dei manoscritti bobbiesi di Torino (Ottino, op. cit.).

È deplorevole che non soccorrano più chiare e decisive ragioni di conchiudere, perchè si tratta evidentemente di cosa abbastanza importante. Se i manoscritti venduti all’asta repubblicana erano quelli stessi veduti poi dal Peyron, possiamo dire di possederli quasi tutti nella Universitaria di Torino, poiché, come abbiamo veduto (32), gli alcuni da lui scelti ed acquiuistati, con la abbondante trentina dei venuti appresso, equivarrebbero alla quasi totalità dei 119 manoscritti superstiti a Bobbio ancora nel primo anno di questo secolo.

Non parrà certo improbabile che gli stessi soppressi monaci di S. Colombano, vista la viltà del prezzo, procurassero per interposta persona di riavere i loro libri, cedendoli poi al Peyron con qualche vantaggio, per loro anche più sensibile dopo le rovine economiche loro inflitte dalla soppressione. Mi viene anche il dubbio che quel Buthler deliberatario dei libri, che è detto cittadino di Bobbio, non fosse che uno dei monaci secolarizzati di S. Colombano; forse un inglese (33) venuto a monacarsi a Bobbio, come d’Irlanda vi era venuto S. Colombano, e che con quella tranquilla intrapprendenza che l’inglese non ismentisce quasi mai, presentavasi all’asta colla semplice ed allora quasi sacramentale qualifica di cittadino. Che il Peyron dovesse usare ogni riserbo parlando dei detentori e rivenditori de’ codici, si capisce troppo facilmente.

La parte poi de’ codici stessi, ch’egli dice venduta