imitato, ripetuto e guastato: come se da un albero non si tagliassero i rami se non per arderli, invece di consegnarne qualcuno alla terra si che rigermogliasse in nuova pianta. Dante vedeva che Virgilio era un grande poeta in quanto nascondeva sotto veste di figura un verace intendimento. Noi pure non assentendo ad altri e a Dante in tutto, riconosciamo per certo che Virgilio non scrisse ecloghe e poemi per il gusto di scriverli e di farsene onore presso Pollione, e Varo e Gallo e Mecenate e Augusto; e nemmeno che l’amor della vita pastorale o quello dell’agricoltura lo ispirò, senz’altro, a cantare gli amori e i diverbi dei pastori e le fatiche dei contadini; e nemmeno che la glorificazione della gente Giulia e dell’erede Augusto fu il fine della sua Eneide. Certo, in tutte e tre le opere del nostro Poeta suona alto, sulle avene boschereccie, sui rustici carmi, sulle buccine di guerra, l’abbominio della discordia civile e l’invito alla pace. Nessun poeta moderno ha cantato più persuasivamente di lui la dignità e la santità del lavoro. Egli è il Poeta dell’oggi: che dico? Egli canta ciò che ancora non è; egli canta, se veramente egli è, come fu creduto, profeta, canta ciò che sarà. Per Dante, Virgilio non solo fu il profeta inconsapevole del Cristo, ma il suo proprio, il profeta di Dante — perciò, dell’Italia — . A Dante parve che il Poeta di Mantova avesse, in certo modo, rappresentato nel suo Enea profugo, in cerca di patria e di pace e di gloria, l’esule Dante che cercava appunto la gloria e la pace e la patria. L’incendio di Troia, l’errare per ogni mare, le guerre che ancora aspettavano l’eroe nel luogo assegnatogli dal fato, raffiguravano, così, l’anarchia medioevale