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introduzione. | vii |
cioè a dire un influsso che non toccò quasi per niente il linguaggio del pensiero filosofico e del sentimento, ma solo quello risguardante oggetti esterni, gli usi della guerra, le leggi e i costumi feudali. Onde leggendo gli scritti d’un prosatore filosofico e morale, come ad es. il Galilei e il Leopardi, è raro l’abbattersi in vocaboli d’origine germanica. Perciò non che il dire che l’italiano sia derivato dal tedesco, sarebbe assurdo ormai anche il parlare di corruzione cagionata dai Barbari al latino e del loro influsso sull’origine delle lingue romanze.
Ma se pel passato s’esagerò l’importanza dell’elemento germanico, oggi si corre all’eccesso opposto, e prevale generalmente la tendenza, se non a negarla del tutto, almeno ad attenuarla e a rimpiccolirla soverchiamente anche per la parte lessicale. La reazione contro l’esagerazione di tale influsso cominciò con Scipione Maffei, il quale nel libro XI della sua Verona illustrata1, in mezzo ad osservazioni spesso giustissime, scrisse: «Comunissima dottrina è che se ne debba l’origine (della lingua italiana) ai Barbari, e che nascesse dal mescolamento delle lingue loro con la latina. A noi sembra indubitato che niuna parte avessero nel formare l’italiano nè i Longobardi nè i Goti... Che rileva se forse una ventina di vocaboli usiamo originati dal tedesco?». Nel nostro secolo il Cantù2 fece sua la sentenza del Maffei, e tentò di ridurre a niente l’elemento nordico. Il Bartoli3