Pagina:Il Baretti - Anno II, n. 1, Torino, 1925.djvu/3


il baretti 7

STILE E TRADIZIONE

Mi è assai piaciuto che nel primo numero di questa rassegna, accanto a parole di condanna, sue e d’altri, per la nostra appena trascorsa giornata spirituale e letteraria, il direttore del «Baretti» abbia accennato a spiriti rari e individui originali, con i quali non è dubbio che si debba mettere il lavoro a comune; e ad una sua volontà di conservare, riabilitare, trovare degli alleati. Se è inevitabile che gli scrittori delle riviste nuove ci appaiono in atteggiamento di polemica e di condanna verso il malcostume precedente, letterati e insieme confessori di nuove fedi e di nuove speranze; è altrettanto certo che in siffatti processi e requisitorie non è facile serbare buona misura e non dare nell’avventato o nel generico.

A tutti sono in mente le carte problematiche e programmatiche che han deliziato più volte la nostra vigilia; le zuffe ideologiche o appena verbali — verba sesquipedalia — onde più volte fummo distratti e delusi in cammino. Evitare il generico, costruirsi dei limiti e dei piani concreti, e siano pure modesti, è questa la difficoltà maggiore a cui va incontro, oggi più che ieri, una rassegna di letteratura; ed una rivista come la presente la quale non ha temuto di rifarsi esplicitamente all’insegnamento di quel maestro di chiarezza che è il Croce. Pensando al quale, e ai frutti tuttora incerti e controversi della sua scuola, che accettiamo in più parti come nostra, non è facile davvero resistere alla tentazione di crearsi storici del tempo presente e suoi giudici, se non proprio suoi giustizieri.

Il problema della tradizione è il problema di tutti noi, e porlo con chiarezza è già impresa difficile; chè tanto varrebbe averto risolto per metà. Ma siamo lontani da questo.

Quanto c’è di vero e quanto d’illusione nella nostra tendenza a crearci critici e giudici dei nostro tempo? Mancanza di prospettiva, passioni e accidenti individuali, ci creano ostacoli da ogni lato. Nei nostri inventari e bilanci di coltura, nei moti che ci persuadono a erigere in leggi e in imperativi i nostri estri più incontrollabili, noi non sappiamo quanto sia di capriccio e quanto di verità. Il concetto di tradizione che ci guida, i propositi di chiarezza e di concretezza che ci vengono dall’insegnamento crociano, sono, per esempio, assai chiari, e per nostro conto decisivi, per quanto si riferisce a problemi di cultura e di critica, e ai programmi di lavoro pel futuro, che a questi si riferiscono. C’è qui materia per l’opera di più d’una generazione; e intanto già si parla, d’attorno, di superamenti, misticismi e dualismi. Se i poeti hanno perduta la fiducia nelle parole, i critici che non vogliono essere da meno si raccomandano quando alla provvidenza, quando a pretesti freudani ed einsteniani; è in tutti un gran disprezzo dell’arte e un palese desiderio di pescare nel torbido.

Un primo dovere potrebb’essere dunque nello sforzo verso la semplicità e la chiarezza, a costo di sembrar poveri. In Italia non esiste quasi, forse non esisterà mai, una letteratura civile, colta e popolare insieme; questa manca come e perché manca una Società mezzana, un abito, un giro di consuetudine non volgari: come a dire un diffuso benessere e comfort intellettuale senza cime ma senza vaste bassure. Costì è mestieri lavorare in solitudine, e per pochi: di fronte non è che grossezza, e non solo quella borghese, ma quell’altea verniciata di cultura e di sufficienza.

Il diffuso e appena larvato discredito in cui è tenuto nel nostro paese il letterato e l’intellettuale, non dev’essere l’ultima causa della smania che dimostrano gli scrittori esordienti di atteggiarsi a profondi filosofi, al disopra della mischia. Ma carla, muovendosi nei fatti concreti. Non vor- in realtà non c’è oggi miglior dimostrazione della propria cultura filosofica, che quella di dimenti remmo accettare alcuna mitologia;1 ma alle nuove che si pretendesse d’imporci preferiremmo decisamente quelle del passato che hanno una giustificazione e una storia. Al furore relativistico o attualistico è ben sicuro che anteporremo lo splendore cattolico. Al desiderio di frontiere troppo vaste, di cieli troppo distanti, porremo innanzi il confine del nostro paese, la lingua della nostra gente. Troppo lavoro rimane da compiere oggi, perché ci tentino questi salti nel buio; ed è — oltre i precisi e maggiori compiti storici che l’esempio crociano ci addita — un ingrato travaglio senza luce e senza gioia: la creazione di un tono, di una lingua d’intesa che ci leghi alla folla per cui si lavora, inascoltati; che ci conceda l’uso del sottinteso e dell’allusione, e la speranza di una collaborazione; la creazione di un centro di risonanza che permetta alla poesia di tornare ancora a costituire il decoro e il vanto del nostro paese, e non più una solitaria vergogna individuale.

Con tutto questo, che può di certo formare la base d’intesa per una lunga attività che noi non vediamo di certo compiuta, non s’è però usciti, è chiaro, dal campo della critica e della cultura. Per ciò che riguarda la poesia, preoccupazione segreta e costante di tanti, i lumi sono assai minori; come ausilio minore può darci, tutto sommato, il concetto di tradizione che da più parti, e giustamente s’invoca. Dove per tradizione non s’intenda un morto peso di schemi, di leggi estrinseche e di consuetudini — ma un intimo spirito, un genio di razza, una consonanza con gli spiriti più costanti espressi dalla nostra terra; allora riesce alquanto difficile proporsene un modello esteriore, trarne un preciso insegnamento. Non continua chi vuole la tradizione, ma chi può, talora chi meno lo sa. A questo intento poco giovano i programmi e le buone intenzioni.

Noi riteniamo che il nostro tempo ha cominciato, in qualche modo a trovare la sua voce e la sua espressione; e crediamo di poter affermare che gli uomini migliori d’oggi saranno un giorno veduti meglio inquadrati nella storia del nostro paese, che non li esclude dal loro posto di cittadini europei. Ma intanto questo destino di vivere alla giornata è parso ad alcuni troppo precario. Fu notato cioè che il problema dello stile, inteso come qualcosa di organico e di assoluto, momento supremo della creazione letteraria, è tuttora aperto al punto in cui lo lasciarono il Manzoni e il Leopardi; e parve non vi fosse dopo che abbassamento, compromessi, dialetto e falsetto.

Non si potrebbe negare che qualche cosa di vero sia in questo sconfortante rilievo; come è certo che l’esagerarne la portata ha condotto a risultati incredibilmente inattuali e generici.

Non fu tenuto abbastanza presente che nell’ordine di taluni atteggiamenti superiori il Manzoni, poeta e punto d’arrivo di tutto un ramo secolare della nostra stirpe, si giovò della soluzione cattolica; che nel Leopardi stesso dopo i quattro o cinque momenti più alti e più leggiadri, c’è già scadimento e autoretorica; e che, prima di questi, il Foscolo dello Sterne e delle «Grazie» è già vicino in spirito a certo odierno superiore dilettantismo.

Se questi sommi non seppero, essi stessi, tenersi molto sulle cime conquistate, come pericoloso deve apparirci questo isolare e idoleggiare alcuni attimi cristallini e irripetibili dell’arte loro, considerati in astratto e al di fuori dell’opera che coronarono e giustificarono.

Se giunti a queste altezze fu necessario un ritorno al piano, non è una ragione valida per negare giustificazioni agli scrittori che vennero in poi. S’è vista la poesia d’oggi giovarsi, con risultati d’indiscutibile concretezza, d’un tono più comunale; e si son visti fallire l’uno dopo l’altro i trovatori più baldanzosi, che cantano per universali e ripetono ingenuamente le forme del passato considerate come realtà estrinseche valide di per sè. Più di costoro che dello stile tradizionale non serbano che le apparenze — e altro non è possibile in questo senso a meno che nuove condizioni storiche non sorgano e nuove fedi — più di costoro, diciamo, ci sembrano nella tradizione coloro che riflettendo nell’opera propria i caratteri del nostro tempo complesso e difficile, tendono a un dilettantismo superiore, saturo d’esperienze umane ed artistiche.

In Italia — altri l’ha già osservato — pochi si figurano quel che può essere un dilettante di grande classe; e metteremo anche questa tra le riprove della nostra scarsa civiltà, non solo letteraria. Noi per conto nostro ci riterremmo fortunati se con l’opera nostra potessimo collaborare alla formazione di un ambiente cordiale, di allusione e di intesa, in cui potesse sorgere senza fraintendimenti un’espressione d’arte, anche modesta. Invece si continua ad attendere il Messia, che non verrà.

La verità è un’altra; ed è che, debba o non debba risorgere la nuova arte dal tormento critico, essa non sarà cosa nostra se non risponderà alle più imperiose esigenze che in noi si sono maturate. La sua semplicità dovrà essere ricca e vasta; e chi non sente venir meno la fiducia nei profeti ingenui è davvero persona di buona fede. Oggi ci si attarda in condanne e in processi, ma nessuno potrebbe immaginarsi di rinunziare, senza sentirsi impoverito, a certi toni che sono nell’aria e rappresentano tutta la poca ricchezza che abbiamo sortito.

Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianismo ed altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar le gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, dal polemismo e dalle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume.

Se fu detto che ii genio è una lunga pazienza, noi vorremmo aggiungere ch’esso è ancora coscienza e onestà. Un’opera nata con siffatti caratteri non abbisogna di molto di più per approdare, come la «bouteille à la mer» di de Vigny, ai tempi più lontani.

E’ chiaro che tutto si deve tentare per mettere in salvo quel che s’è fino ad ora realizzato, i tre o quattro punti d’intesa che rischiano di essere scancellati e sconvolti. Su questo minimum comune di programma c’è lavoro per tutta la nostra generazione: non è per noi tempo di dissensi, di posizioni singolari e di camarille.

Aristarco-Baretti reincarnato lascerà di certo questi lussi agli uomini del domani, di noi più fortunati. E per ora: — buon anno, Scannabue.

Eugenio Montale

LA NUOVA ANTOLOGIA

La letteratura italiana non è popolare in Italia... precisiamo: la letteratura italiana non è in Italia femminilmente popolare, non viene di moda, non riesce a dar tono, non entra nel patrimonio della coltura spicciola e brillante. Per ciò anche essa ha un che di austero, di puro, o magari di magniloquente, come cosa non da tutti i giorni, ma da farsene belli nelle ricorrenti solennità.

Serve da impulso e modello retorico, e non d’amena compagnia nelle ore d’ozio.

Altri hanno indagato le cause di questa sua sfortuna. L’effetto è che i libri italiani non si leggono. Ne deriva uno straordinario isolamento per il letterato, una mancanza di comunità e d’intesa co’ suoi lettori, un linguaggio cui è raro trovare una viva matrice e che tende per forza verso forme antiche e estreme. Ma se è cosa difficile e sconcertata scrivere un libro, sono altrettanto difficili i mestieri intermedi, la critica, che supporrebbe una società culturalmente organica, la raccolta di scritti altrui, la cronaca; e forse è inutile affatto la compilazione delle antologie.

Ma d’altra parte, questi mestieri che non hanno da noi un’importanza sociale e non riescono a definire se l’attività d’un uomo — Sainte-Beuve italiano, se non fosse professore, chi mai ne terrebbe conto? — prendono importanza per i singoli e fungono da mezzi espressivi. Si fa sentire anche qui, la nostra esagerata individualità: quella fatica, e insieme quella felicità, di dover sempre e isolatamente comunicare con gli spiriti sommi, di sentirli vivi e attivi di fronte a noi come l’unico esempio. Per ciò ci prende l’usanza letteraria dell’imitazione: per ciò anche ci occupa in ogni campo l’ansia di creare: chè un modesto cammino dentro un’ombra studiosa, un lavoro di second’ordine ma ponderato bene e attento e infinito ci opprimerebbe come una schiavitù.

Ho preso le mosse da lontano per dire che l’antologia nuova che ho sott'occhio (I), rifatta con molta pazienza su quella uscita nel 1920, non è da guardarsi come soltanto un libro comodo pei riferimenti e amabile per il gusto che ha diretto la scelta dei passi e degli autori. La ben nota indipendenza di Papini, la arguta sensibilità di Pancrazi garantiscono un’opera, in cui, se, come dicono, è vero che non han voluto far la parte di geni originali, non ci posson per altro esser segni di piaggeria; e i peccati, se ci sono, saran tutti di severità e di disprezzo.

Non è dunque un libro d’informazione indifferente, ma un libro fatto da autori responsabili che non posson dimenticare le loro vivaci tendenze, un libro, in certo modo, di battaglia; e paragonando le due edizioni si misura lo spazio degli anni non tanto nella differenza dei prodotti raccolti, quanto nei criteri di scelta e nell’ordinamento del volume. Meglio che una breve storia delle nostre lettere si ottiene così la storia di due scrittori; o per lo meno, a traverso la loro scelta, l’idea d'una variazione di gusto che è indice di mutamenti spirituali e che, sebbene accennata dalla parola di pochi, è da ritenersi generale.

Papini e Pancrazi si misero al loro primo lavoro sùbito dopo la guerra, quando forse parve a loro che fosse maturo negli animi lo stacco dal mondo di prima e si potesse tornare a vagliare i prodotti con occhio sereno. Ritrovarono in vece, su i fogli già vecchi, tanti nemmeno raccolti in volume, li ardori e le speranze, e non credettero di certo che gli accenti spesso rotti e commossi e il consenso che si immolava nel loro animo fossero una casa caduca. Sebbene un’età si fosse chiusa, e parecchi morti, le mutate contingenze, le ambizioni degli stessi scrittori volte a mete diverse o soltanto sconvolte mettessero fra mezzo una densità d’ombra dove si potevano alimentare i dubbi, si rinfrancarono nella fede di scopritori e di vindici e portarono avanti la schiera dei loro amici in bell’ordine d’assalto. Non inutilmente era l’ora di concedere a molti una prova di popolarità, o almeno la semplice notorietà dei loro nomi, spesso sottratti al pubblico chiuso e fumoso verso la possibile riconoscenza dei più semplici lettori.

Rifare, nel 1920, un Almanacco della Voce, uso quello del ’15, vuol dire assai vociani di cuore. Si capisce anche, quasi per ragioni tecniche, che il terreno della Voce attragga degli antologisti — poiché è il terreno dove al libro si sostituisce il quaderno, quando non il saggio, l’articolo, la postilla. In verità il tono della prima edizione è schiettamente vociano, ma, per discrezione, e rompendo con le ubbie e le grettezze dei vociani combattenti, si ammettono i precedenti storici; si dà larga ospitalità ai poeti crepuscolari, il che vuol dire che si riconoscono per antesignani.

Essi infatti sono idillici; cercano e definiscono (magari con leziosaggine) la poesia staccata come un tutto, una visione che sta da sè, disancorata, remota, dietro un sipario; ma ivi soltanto le anime ingombre e gravate si dissolvono, e il segreto male si liquefà dolcemente. Ecco che la vita, anche secondo loro, è priva di funzioni concrete; si consuma e rinasce col variare della fantasia breve, o permane in penombra. La loro espressione, sinuosa, mutevole di momento in momento e perciò immediata, non ha bisogno d’architettura; libera dai sostegni logici deriva da un nulla lirico e vi muore, come un lampo che corre arbitrariamente il cielo notturno si spenge lontano senza rombo.

La stanchezza e l’affettazione delle forme consuete che. perdute nella nebbia, smorzate, aiutavano la nostalgia dei crepuscolari, farà luogo poi all’invenzione delle forme nuove; ai clamori libertari e ai fulgori incendiari; il passaggio si fa senza salti. Si mettano accanto Corazzini e Palazzeschi; o Govoni e Folgore: cambia, dall’uno all’altro, il tono; ma di grado più che di natura, come se l’animo si fosse rinfrancato e dopo le prime prove, un po’ timide o accorate, sostituisce la baldanza all’ironia. I crepuscolari giudicavano meglio, possedevano il senso raffinato, quasi morboso, delle distanze, s’abbandonavano a sommessi colloqui con gli uomini, con le cose, donde nasceva la loro pietà. Questi si fidano del giuoco d’una volontà che li illude; assumono la singolarità come una forza e si fanno centro d’un vortice in cui le imagini sono attratte e scomposte; dicono perciò il loro monologo in un mondo senz’eco, suscitato e sconvolto dal battito delle loro parole.

Entrambi sono mossi da una necessità d’indipendenza, in quanto artisti, da un’avversione per le catene che li avrebbero costretti a una mediocre rinomanza d’epigoni, alla servitù dello stile imitato. Li preme una medesima voglia di solitudine, non è diverso il senso della loro protesta; si posson tutti considerare come inconsci campioni di nuovi principi estetici. I poeti crepuscolari sono umili e guardinghi, son mansueti alle esigenze del mondo e talora pieni di civetteria; ma sotto il velo della tristezza o la finzione d’una sconfitta, quanto spesso s’indovina la gioia. La coscienza dell’artista non si turba più del proprio dolore, quando sia espresso; e dall’oscuro impulso iniziate e dalla confusa noia delle imagini che si tramutano e s’accavallano giunge infine alla chiarità del frammento.

Così la prima antologia è una specie di apoteosi del frammento. Dove non è possibile incidere perchè la continuità della mola non permette d’apprezzare gli elementi lineari e lirici, la presentazione degli autori è tendenziosa e insufficiente (Renato Serra, Ada Negri); oppure praticano dei tagli sapientemente ironici che dànno spicco alla materia più sciatta e incerta (Guido da Verona). Nel culto del frammento ci si può riconoscere una consuetudine retorica del nostro spirito, che intende la poesia come una distillata quintessenza, e la vede in forma di preciso cristallo frammezzo alle vegetazioni troppo folte e intricate; ma vi è in oltre insito uno sforzo (e uno sfoggio) assai moderno, cioè una figura di quell’attivismo che è la più consolante illusione della gente debole e esigua. Si direbbe che gli autori abbian paura di smarrirsi, se non tenessero tese e sonanti e compiute in sè una per una le linee del loro scritto, e negli oggetti che toccano e pesano più che vederli, non facessero sentire, quasi una presenza divina, la loro presenza.

Si capisce che allora tutto è poesia — tutto è potenza e mezzo d’espressione, ogni sillaba è pregna dì valore, e i periodi, uno dopo l’altro, son bandiere spiegate, larghe insegne che da sole bastano a decifrare l’animo del poeta. Le forme poetiche hanno da esser apprese internamente; il verso, non solo la rima, si deve sdegnarlo come una specie di richiamo volgare, come un «bijou d’un sou» che sta bene soltanto ai negri. Con tanto orgoglio non si riuscirà mai a interessare il prossimo, a narrare vicende umane, a far vivere e muovere persone; ma questo non importa agli scrittori che respirano nell’atmosfera d’un cenacolo.

Dove portasse la via battuta fino allora dai loro amici, e in generale dagli scrittori «moderni», fossero o non fossero futuristi, i raccoglitori dell’antologia l’hanno capito; lo dimostra la nuova edizione di quest’anno. Quel che s’è detto fin qui vale per questa edizione; i favoriti di ieri devono avere uno speciale risalto, non foss’altro per quel loro influsso che rimane tenace anche in chi se ne vuole liberare. Ma appena s’apron le nuove pagine, si ha l’impressione che ci sia più respiro; e insieme d’una scelta più umile, più attenta, taluno dirà più corriva; ma anche meglio informata. Gli scrittori riuniti son di più; le fila si sono allargate, e i più diversi o opposti paion pacificati in buona vicinanza. La raccolta non è viziata da intenzioni polemiche, è meno uniforme di prima, meno didattica, e, sotto un aspetto di più larga indulgenza, assai più vivace.

Son tornati alcuni anziani, colpiti allora da un giudizio sommario; dei nuovi, non più giovani, ce n’è dì quelli che hanno ottenuto un largo riconoscimento dal pubblico, ma che non possono garbar molto al gusto dei loro presentatori. Su tutti, anche su quelli già noti per prove di scrittura astratta, par che aliti un’aria più umana. Non conterebbero più, ora, le vicende di stile; appaiono, come un esercizio, se utile o forse indispensabile per chi è del mestiere, privo di senso generale. Per un altro verso, alcuni che giocavano beati con le imagini e coi suoni come dei tardi fanciulli, si son fatti più corporei; hanno smesso di vezzeggiare e principiato a sentire il peso dei beni e dei mali.

Comincia bene l’antologia dando uno spazio doveroso a Adolfo Albertazzi, il più vecchio e il solo defunto dei nuovi ammessi, un romanziere adatto a farsi discettare, perchè qui, nei brani che fan figura di bozzetti, raggiunge il suo pieno vigore: delicato, un pochino blando, a volte quasi profumato; ma pure fermo, e capace di contenere il variare degli accenti e dei gridi umani nella precisa cornice del paesaggio. Altri scrittori non comportano un trattamento d’antologia; ma stanno a dimostrare che si aprono ormai le vie del racconto. I novellieri d’oggi non sono innocenti; portano in sè ricordi di molte lettere, aspirano a una specie di raffinatezza psicologica che ai lettori più nostrani può sembrare esotica e falsa. Non ci dànno quindi libri animati e divertenti, ma tentativi d’un’arte che si liberi dagli schemi delta vita provinciale.

La lettura dell’antologia sarà fatta con profitto, e raddrizzerà forse parecchie opinioni. Vorrei più che altro indicare gli esempi di Cicognani, dove si vedon creature piene d’istinto, indagate con cura scrupolosa, mostrate e animate con una penetrazione scevra ormai da qualunque compiacimento; e sono liberamente acri e proterve, è patito e s’è rugato per loro il volto del loro poeta. Oppure mettere a confronto del suo estatico mondo di prima la semplice pietà di quella chiesa del Carmine dove Palazzeschi ha pianto e pregato. Vorrei anche rilevare certe esclusioni; e mi par di capire che non s’è voluto dar risalto a pagine di fronzoli letterari, a eccellenti ma sterili ricalchi, a esempi, se si può dire di pura e semplice calligrafia. La volontà dello stile era andata a parare alla sparuta noia di rifacimenti, alle note di taccuino redatte con gran sussiego; ora quelle ricche vesti si sono sgonfiate e pendono a un gancio ammencite. E’ giusto che il secentismo rudesco non sia tornato in mostra.

Non mi riesce invece di capacitarmi che nell’abbondanza degli scrittori qui annoverati non ci sia posto per Ojetti. Anch’egli sta facendo, è vero, da due o tre anni in qua dei perfetti esercizi di stile; c quando c’è meno vena si sente la mano che tituba e incaglia per uno scrupolo esagerato, quasi materiale. Ma fa il suo cammino a rovescio degli altri, il suo travaglio è, non per per una forma vuota, retorica, ma per ottenere una forma plastica, aderente e adeguata alla sua esperienza così varia, al suo spirito tanto acuto. Hanno avuto forse a sdegno, in lui, il dilettante? Hanno respinto, pel ricordo delle loro colpe passate, gli esempi staccati, frammentari, l’arte troppo controllata che tira all’effetto, la bravura un po’ giornalistica? E sa bene di mostrare questo scettico, che a forza di guardare gli atti e le pose degli uomini, o magari t loro vestiti, se li accosta e li comprende. Il disegno preciso e icastico, la chiarezza sottile sono buoni veicoli anche per la commozione.

Se ora si dovessero tirare gli oroscopi, si potrebbe dire che ci si va orientando lontano dalla letteratura chiusa e d’eccezione verso interessi panoramici e considerazioni più pacate degli eventi, che si è stanchi d’ammirare e celebrare il proprio io e si pensa di più alla responsabilità dello scrivere; tanto che, fra cinque anni, ci avrebbe da esser scarsezza, negli scritti, d’elementi lirici e un’antologia come questa non si potrebbe più rifare. Ma è meglio attenersi al presente e non esser dunque ingrati alla fatica dei compilatori nè alla schiera degli scrittori i quali attestano, quante volte han voluto rinnovare, la tenacia delle [nostre tradizioni, la plastica bontà dei nostri grandi e il peso della lunga storia che, per esser gente civile, noi si deve accettare ed amare.

Umberto Morra di Lavriano.


  1. errore di composizione: riga di testo fuori posto