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IL BARETTI

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Anno I — N. 1 — 23 Dicembre 1924


SOMMARIO: p. g.: Illuminismo. — N. Sapegno: Resoconto di una sconfitta. — U. Morra di Lavriano: La scuola della “Voce„. — G. Prezzolini: Jack London. — S. George: Der Siebente Ring (tr. da G. A. e da A. E.) — E. Berth: Art et Industrie. — R. Franchi: La pittura Italiana del primo ottocento.


ILLUMINISMO

Il sapore arcaico e polemico di questo nome di esule e di pellegrino preromantico, annunciato quattro anni sono per titolo di una rivista di scrittori giovani che ora si pubblica, sottintendeva una volontà di coerenza con le tradizioni e di battaglia contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie. Quegli intenti, in nuovo clima, non ci sembrano inattuali.

Di scoperte metafisiche, di relativismo, di arte applicata ai grandi problemi è rimasto, dopo quattro anni, appena il ricordo. La generazione che ti precedette combattè allora l’ultima battaglia della sua passione romantica. Cercò la salvezza nelle conversioni, nei programmi neoclassici, negli appelli spirituali; con giovanile innocenza, come l'aveva cercata prima nel futurismo, nell'idealismo attuale, nelle cento religioni che venivano dai profeti d’oltralpi, nella guerra. Tutte quelle formule erano espedienti, fatti personali; classicismo senza classici, misticismo senza rinuncie, conversioni crepuscolari. Era naturale che gli uomini che nel relativismo avevano cercata l’epica del provvisorio venissero così a perdere nelle crisi individuali il senso dei valori più semplici di civiltà e di illuminismo e rinunciassero anche alla difesa della letteratura insidiata e minacciata dalla politica.

Le confuse aspettazioni e i messianismi di questa generazione dei programmi, che per aver messo tutto in forse si trovava a dar valore di scoperte anche alle più umili faccende quotidiane, preparavano dunque l’atmosfera di una nuova invasione di barbari, a consacrare la decadenza. Anzi i letterati stessi, usi agli estri del futurismo e del medioevalismo dannunziano, trasportarono la letteratura agli uffizi di reggitrice di Stati e per vendicare le proprie avventurose inquietudini ci diedero una barbarie priva anche di innocenza. Con la stessa audacia spavalda con cui erano stati guerrieri in tempo di pace, vestirono abiti di corte felici di plaudire al successo e di cantare le arti di chi regna.

È ovvio che con questi cenni non si fa un processo a persone ma si descrive una atmosfera spirituale da cui son pure restati immuni spiriti rari e individui originali coi quali noi abbiamo un certo obbligo di mettere in comune il lavoro. Insomma sotto il nostro linguaggio di condanna c’è una volontà di conservare, di riabilitare, di trovare degli alleati.

Non vorremmo ripetere in nessun modo certi atteggiamenti incendiari, avveniristi e ribelli che indicarono per l’appunto coscienze deboli, destinate a servire. Avendo assistito alla triste sorte delle speranze sproporzionate, delle fiduciose baldanze, delle febbri di attivismo il nostro proposito è di conservarci molto parchi in fatto di crisi di coscienza e di formule di salvazione; nè di lasciarci sorprendere ad escogitare nuove teorie dove basterà la sapienza quotidiana. Abbiamo deciso di mettere tutte le nostre forze per salvare la dignità prima che la genialità, per ristabilire un tono decoroso e consolidare una sicurezza di valori e di convinzioni; fissare degli ostacoli agli improvvisatori, costruire delle difese per la nostra letteratura rimasta troppo tempo preda apparecchiata ai più immodesti e agili conquistatori.

Non era difficile imparare queste arti di stupire il villaggio se il segreto non ci fosse apparso subito troppo meschino, come se a raggiungere la perfezione in certo genere di esperienze bastassero proprio i congegni del giocoliere. La nostra vita cominciò qui, con la scontentezza di ciò che sembrava materia di entusiasmo. Perciò invece di levare grida di allarmi o voci di raccolta incominciamo a lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo.

p.g.


RESOCONTO DI UNA SCONFITTA

Io credo che noi siamo nati perché qualcuno dicesse poi che i predicatori hanno anche qui chi ti ascolta. Per la soddisfazione e il conforto insomma dei pedagoghi d’Italia: ai quali dagli italiani si suol offrire, quando non pure odio e persecuzioni, certo non più che un’ammirazione sospettosa e lontana. Vero è che, a differenza di quelli d’oggi così precocemente orgogliosi della loro originalità ed indipendenza, noi — da giovani — abbiamo avuto dei maestri nostri, a’ quali portavamo, meglio che venerazione, affetto, e da’ quali non sapremmo staccarci senza profondo rammarico. Chè se pur oggi ci vien fatto d’incontrare sotto la nostra penna uno di quei uomi, difficile è poter vincere la commozione che ci prende improvvisa. Per esempio, Croce. Se ripensiamo all’ora in cui, per la prima volta, scoprimmo nel variopinto disordine d’una vetrina di libraio, i rossi volumi di Laterza, sempre ci pare di rinnovare ne’ nostri cuori il risveglio, che esperimentammo: quando il mondo ci parve d’un tratto più vasto e più chiaro e più facilmente abitabile, e le cose che noi amavamo illuminate di maggior luce.

Croce maestro nostro! Ma non siam qui per parlare di noi, nè di ciò che Croce è stato per noi: bensì vorremmo descrivere quello che egli è stato per l’Italia, quello che ha dato al pubblico italiano, pur nel ristretto campo delle lettere e della critica letteraria. Tutti ormai sanno, o sentono come per istinto, che, al di là delle apparenze, l’influsso di lui in questi confini si rivela sempre più scarso lieve e superficiale. Non per deficienza del piano ch’egli costrusse, solido e grandioso, sui fondamenti d’una tradizione nazionale, e nel quadro della vita europea: ma perché il pubblico al quale doveva per necessità rivolgere i suoi consigli si è dimostrato incapace di comprenderlo e di seguirlo, e l’ha trasformato, contro sua voglia, in un apostolo predicante al deserto. Non sarà inutile indugiarsi a raccontare ancora una volta la storia vera di questo fallimento: che è stato la più grave e profonda sconfitta detta nostra adolescenza, ed è pure il punto da cui dobbiamo muovere, se sarà possibile, e progredire.

Pensiamo a quello che Croce ci avrebbe potuto dare. Perchè insomma oggi pare a noi che egli abbia raggiunta d’un balzo la vetta, verso la quale tutti, forse inconsapevoli, ci affatichiamo: ritrovando fin da principio per il suo spirito europeo, critico (in una parola, moderno), quei solidi e riconfortanti legami con la tradizione classica e paesana, che ognuno può vedere facilmente nel suo pensiero come nel suo stile. In realtà, anche da lui, questo risultato doveva esser stato conseguito con uno studio e un travaglio così lunghi e difficili, che subito i primi seguaci della Voce si dimostrarono incapaci di ripercorrerli per proprio conto. Croce offriva un metodo e un sistema: da lui non si tolse altro che dei termini e delle formule. E tra le formule anche, soltanto quelle che più si poterono conformare alla irrequietudine e alla debolezza de’ tempi e degli uomini. Ci furono dei crociani e degli anticrociani, ma nessuno capì Croce: oggi tutti se n’accorgono. Basta indugiarsi ad ascoltare quelli che parlano (o scrivono) delle sue dottrine (amici o nemici), fermarsi a considerare la limitazione e la pedanteria de’ loro schemi, o la sufficienza boriosa e annoiata onde accolgono quelle che a loro paiono inutili ripetizioni, e sono svolgimenti nuovi di pensiero, frutto di nuova meditazione insistente. Non per nulla egli bandisce i discepoli e risponde con un sorriso agli oppositori.

Ciò che si dice dell’opera di Croce in generale, è vero anche per la sua particolare attività nel campo delle lettere. Nel quale poi il contributo essenziale del suo pensiero è sempre parso a noi doversi ridurre ad alcuni principii solidi e fondamentali, che, mentre già eran nella mente di tutti i migliori, venivan per la prima volta espressi con chiarezza e precisione filosofica.

Definire il concetto della poesia, distinguendolo accuratamente dalle altre attività umane, con le quali spesso lo si confonde intorbidandolo: dissipare pertanto e bandire le facili confusioni e le mescolanze arbitrarie e gli illeciti matrimoni dell’arte con la filosofia, che la generale crisi dell’estremo romanticismo rendeva più frequenti e più pericolosi. Item, determinare i limiti che l’ispirazione poetica incontra nella tradizione letteraria e linguistica, e perciò combattere, secondo un saggio ideale conservatore, gli ardori libertari, là dove più parevan perniciosi e falsi: con che si demolivan sul nascere futurismo e frammentarismo, estreme e ancor vive risonanze del moto romantico nella nostra letteratura di provincia. Item, con il fissare i rapporti fra la critica e le lettere o le arti, richiamare i critici all'osservazione e allo studio degli elementi più propriamente poetici nell’opera di poesia, al di sopra o all’infuori delle suggestioni pratiche o di pensiero, o comunque estranee.

Queste a noi parvero le idee buone e nuove di Croce, nel campo delle lettere. Buone e nuove in quanto ripetevano per un nuovo mondo un insegnamento antico. E allora noi — modeste pubblico, spettatori disinteressati — credemmo che niente di meglio rimanesse a fare, per noi e per gli altri, che metterci sul serio a studiare quella tradizione che Croce additava, come i nostri padri l'avevan studiata, con attenzione e volontà d’imparare. Se mai, integrare l’edificio del pensatore napoletano, dove si scoprissero — che non era impossibile — scissure e lacune. (Per es., si può dire che la ricostruita tradizione italiana si arresti per Croce in qualche modo al Foscolo: Manzoni e Leopardi, almeno in alcune parti, pur non secondarie nè trascurabili, della loro attività, gli sono estranei. Qui si poteva studiare e migliorare). Ma, a parte i difetti e le lacune, noi credevamo che un po’ di solitudine libraria non dovesse far male e potesse forse far bene a’ letterati d’Italia. Senonché essi, piuttosto che ad Orazio e ad Ariosto, preferivan dedicare i loro ozii alle mille parvenze iridescenti e mutevoli della scena contemporanea, bisogna anche ripensare all’ambiente, al paese, dove le parole di Croce cadevano, come il buon seme gettato invano, tra i fiori della retorica dannunziana e pascoliana, misti a’ residui di quella più nobile ma ormai stremenzita del Carducci; le importazioni esotiche coltivate con fusibilità di dilettanti e tutto un mondo di affetti, di sforzi, di tentativi di assimilazione e d’imitazione insinceri e freddi. Proprio a quei bravi giovani della Voce doveva toccare il compito di rielaborare il confuso materiale che avevan dinanzi, traendone una compiuta e ordinata architettura. Si vide poi che questo era un peso troppo grave per le loro spalle. A parte i meriti comuni e singoli, anziché diminuire, accrebbero la generale confusione, con nomi e cose nuove, frettolosamente introdotti, a caso e senz'ordine e senza che il pubblico fosse preparato a giudicarne. Così non si è fatto nulla e siamo al punto di prima.

Non è a dire con quanto — sempre disinteressato — entusiasmo noi accogliessimo ogni voce che, nel frastuono delle comuni dissonanze, avesse un tono più coltivato ed educato, e risentisse appena un poco della lettura dei classici. Era giusto e naturale, forse, che ogni volta dovessimo rimanere delusi. Perché sognavamo miracoli; da giovani che eravamo, pieni di passione e di fuoco.

Già, contemporaneo ai fiorentini della Voce, ma rimanendone alquanto in disparte, il romagnolo Renato Serra parve guardare ai problemi delle lettere con una passione accorata ed un interesse sottile e nutrito di umanità classica, che da molto tempo non si conoscevano più. Queste doti, la mirabile facilità di alcuni suoi scritti, la serietà rara e l’educazione civile del suo temperamento, ci renderon cara per sempre la sua figura. Senonché gli nocque l’aver troppo presto compromessa la sua intelligenza critica in studi troppo minori e lontani. Comparandolo al nostro ideale, troviamo ch’egli ha lasciato con suo danno Petrarca e i greci, per correr dietro alle minuzie di Pascoli e di Paul Fort. Ne è venuta fuori, pur fra tanti meriti, una maniera critica anche troppo squisita, ma straordinariamente incerta nei fondamenti concettuali, e ondeggiante fra gli spunti sentimentali e i dettagli stilistici. All’opera sua (che forse fu quella di un precursore illuminato) si son venuti accostando, negli ultimi tempi, movimenti e tendenze letterarie, che ostentavan gli ideali d’ira rinnovato classicismo. Altri neoclassici, che più ne risentivano l’influsso, vollero far parte per sé stessi. Vogliam dire (chè tutti coloro che si occupan di lettere in Italia, li hanno ancora in mente) i redattori della Ronda. I quali parve che appunto, tra i rimbrotti e le polemiche particolari, volessero rimettere a nuovo l’edificio costruito da Croce: innestando l’opera loro nella tradizione classica italiana, compiuta e riafforzata con i dichiarati entusiasmi per i grandi classici dell'800, fondando le loro discussioni critiche su principii solidi e antichi; stringendo vieppiù i legami fra la critica e la poesia, così da pensare che, mentre la critica non poteva nascere se non sulle basi d’una coscienziosa abitudine delle forme poetiche, così la poesia moderna non potesse scaturire se non da una lenta opera di macerazione critica. Credemmo per un istante d’aver trovato i discendenti ideali di Croce. E ci confortava in questa opinione nostra il fatto che alla Ronda avevano aderito i due più intelligenti e raffinati critici che la scuola di Croce avesse educato: Emilio Cocchi e Alfredo Gargiulo. Ora, che è possibile metter insieme un abbozzo di bilancio, ci accorgiamo che, se pure qualche raro frutto è nato nel campo degli studii critici, in quello contiguo della poesia non ne è cresciuto nessuno, nè par certo che ne debbano crescere.

E allora diciamo noi - il problema rimane in quei termini ne' quali Croce l’ha posto: nessuno, se non lui stesso, ha saputo mettere in pratica i suoi insegnamenti, così come prima li abbiamo riassunti: nè alcuno ne ha creati dei nuovi, migliori e più utili. Non possiamo qui una dettagliata analisi dei molteplici e numerosissimi tentativi critici che l’età nostra ha veduto, accompagnandoli d’affrettati e brevi consensi, o lasciandoli lentamente inaridire nel silenzio. Nè vogliamo accennare qui se non alle idee e alle tendenze in generale. Neanche vorremmo che alcuno, punto dal nostro atteggiamento di lontananza, ci facesse una colpa del non aver vissuto e cooperato agli sforzi faticosi, con i quali altri pur tentavano di fissare e ordinare le incerte linee dei nostri tempi. Certo non sì potrà pretendere che noi — pubblico modesto e disinteressato - proviamo di fronte a quelle cose l’affetto e la nostalgia, che altri sentiranno, i quali ci han messo, insieme con l’interesse, la passione. Ma pur noi abbiam partecipato, come potevamo alla vita del nostro tempo, lavorando ciascuno al suo lavoro, non insensibili a’ rumori e alle fatiche degli altri: pur noi abbiam ricevuta una parte della malattia comune, e ne sentiamo ancor dentro il tarlo che ci consuma, serpendo invisibile nell’intimo midollo. Questo diciamo perchè alcuno non creda che abbiamo voluto, solo per diletto, saltare a piè pari tutta una faticosa e rude età, piena di aspirazione per un vivere più umano e gentile. Ho già detto che anche noi aspettavamo d’ogni parte miracoli e improvvise redenzioni. Cose che non avvengono tutti i giorni: oggi lo sappiamo.

Insomma, mentre quei movimenti, ai quali abbiamo accennato, non ci davano (o almeno non ci davano tutto) quello che avevamo desiderato; d’altra parte le vecchie tare della nostra letteratura provinciale spingevano la critica su vie traverse, quando non pure in vicoli ciechi, fuori della grande strada maestra. Abbiamo avuto (tutti lo sanno) la critica psicologica, più culturale che letteraria, la quale avendo dato frutti non dimenticabili, ha servito poi alle facili e vuote costruzioni di tragedie e commedie spirituali, così da diventare un caratteristico documento dei tempi giusti e corrotti. Abbiamo assistito alla degenerazione della critica decadente e sensitiva. In ultimo, con l’improvvisa e facile fortuna delle dottrine gentiliane, abbiamo avuto l’intrusione sfacciata e pesante del filosofismo nel dominio delle lettere. Avremmo altre cose ancora. Ma non ci vogliamo pensare.

Qualche cosa di quel fondamentale spirito crociano che ci sta a cuore s’è pur fatta strada, fra mille difficoltà, con l’opera di Serra, di Gargiulo, di Cecchi, della Ronda, d’altri nuclei ristretti, persino di alcuni professori che continuano in disparte, con animo nuovo, le tradizioni universitarie. Constatiamo questi miglioramenti, e speriamo bene. Come fa Croce, che non ha mai smarrito il suo coraggio e la sua sicurezza.

Abbiamo detto come tutti questi scrittori ponessero stretti legami fra poesia e critica, e si sforzassero di far procedere da questa, quella. Per ciò che riguarda la critica, noi non abbiamo nulla da opporre alle loro idee, che posano sul piedestallo crociano. In quanto alla poesia, invecchiando, abbiam preso a poco a poco l’abitudine di attenderla non da questa o quella Scuola nuova, bensì (le rare volte che viene) dalle Sante Muse, o (se vi piace meglio, per fare un piacere ai romantici, mettere in soffitta il repertorio mitologico) della divina Provvidenza.

Natalino Sapegno.