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222 secondo corso tenuto a torino: lez. vii


teschio da lui guasto, Dante non guarda giá il teschio, ma Ugolino, e gittando in mezzo l’immagine del pasto e facendogli forbire la bocca, usando de’ capelli a modo di tovaglia, spaventa in modo l’immaginazione, che la tiene colá e le toghe il distrarsi nel rimanente dello spettacolo. Se in luogo di questo rapido tocco ei si fosse fermato, sarebbe caduto nell’errore d’Eugenio Sue, il quale rappresenta una tigre che ammazza un cavallo, e non contento alle prime vivaci pennelleggiate, ci descrive i movimenti convulsivi e spasmodici del cavallo, e cosí per troppo abbellire guasta il suo quadro. Ora chi vuol gustare una poesia, dee rifare in sé quel momento creativo del poeta. Ora il conte Ugolino noi l’impariamo fin da fanciulli, e lo diciamo bello sulla fede de’ maestri; e quando si sveglia in noi il senso estetico, è giá troppo tardi, non sappiamo piú rinfrescare le nostre impressioni. Raffreddati, in luogo di sentire, noi analizziamo; l’intero della concezione ci sfugge insieme con la poesia, e non ci rimane innanzi che una bellezza meccanica, il corpo, la materia, nella quale noi ci ostiniamo come uccelli di rapina, ricercandola fibra a fibra; ed allora è ben naturale che noi scopriamo le cervella ed il sangue. La vera impressione che nasce da quei versi non è la vista de’ tendini, de’ nervi e delle cervella (la fantasia di Dante è rapida e non ce ne lascia il tempo), ma il desiderio impaziente di correre da quello spettacolo esterno ne’ segreti del cuore, di leggere in quell’anima. Quanto ha dovuto patire quest’uomo per abbandonarsi a quell’atto cosí fuor dell’umano, cosí bestiale! Ecco ciò che pensa il lettore, ciò che pensa il poeta. E che cosa è nell’anima di Ugolino? Un sentimento che spiega quell’azione; ma no, la sua anima è piú feroce ancora che la sua azione; un sentimento che sí manifesta nell’azione e vi rimane al di sopra come un malcontento artista che non vede sulla carta il suo ideale e non lo spera. Il dolore di Ugolino è «disperato», senza speranza, non saziato, non placato da quella vendetta: il suo dolore riman vivo e verde, tanto che a solo pensarci egli lacrima, come se pur ora avesse sofferto. Anche in Shakespeare vi è un padre a cui sono ammazzati i figli, e: «— Che fai?» gli grida un amico: «non calcarti il cappello,