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Aristide, a tanti grammatici e retori oscuri, citati così spesso; e ora ha in disdegno le loro «ciarle», e motteggia gli «eterni» misteri di Plotino, e i già tanto studiati e citati mette in un fascio coll’immensa «marmaglia» di libri manoscritti, che «non si stampano perché non si leggerebbero».

È già mutato il suo modo di scrivere. A quel tempo era in voga un curioso innesto di cinquecento e di trecento: sposare il periodo del cinquecento alla purità del trecento, matrimonio mostruoso davvero. Qui spunta nella prosa del giovane la maniera, uno scrivere convenzionale, secondo la scuola classica. Vedi quei lunghi periodi architettati in forma solenne, con molta copia di epiteti e di trasposizioni, anche a dir le cose più comuni. Vuol dire che Gellio citò Orazio una volta sola, ma molte volte Virgilio; e gira il periodo a questo modo: «Non citò Orazio che transitoriamente una volta, ma Virgilio sì bene assai volte allegò». Accanto a questa artificiata architettura di periodo copioso e sonante, che ricorda Boccaccio e monsignor della Casa, trovi «il manifesta cosa è», e «meco ho deplorato», «opinion sua», «il gran critico di Longino» e «la gran donna di Saffo», ed «avvegnaché» in luogo di «perché», e «come» in luogo di «che», e «ragguardare» e «nominanza», e «difformità» per «divario», e «anco» per «anche», e troncamenti e ripieni e riboboli. Questo è il risultato dei primi nuovi studi, il nostro giovane in abito di purista, più vicino all’abate Cesari che a Pietro Giordani.

Si disputa in quale anno sia cominciata questa, che chiamano conversione letteraria. Il Giordani afferma che nel 1817 Leopardi non avesse ancora letto gl’italiani. Il Cugnoni pone la conversione nell’anno 1813, com’era ben noto al Giordani. Il Leopardi parla di questo in molte sue lettere con tanta precisione, che non ci cape equivoco. Nel 1817, 30 maggio, scrive così al Giordani:


Io sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai tredici anni ai diciassette ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette