Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XXII
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XXII
STATO SOCIALE
(continuazione)
Temo che si corra troppo. Assuefatti alla nostra tradizione cristiana, che, tra parentesi, fa eccezione alla immensa maggioranza delle altre e che si paga in parte colle perfidie dissimulate della infedeltà e con la immoralità sfacciata della prostituzione. A noi ci pare, che se una donna non è unita all’uomo, per tutti i sacramenti della Chiesa e se non è sola, siavi l’atrofizzamento d’ogni sentimento gentile.
Potrebbe dimostrarsi anche il contrario: ma limitandosi al nostro compito degli Indiani, qua io ho visto prove di grande tenerezza coniugale tra poligami.
Un Indiano che avevamo a bordo, e che aveva una bella e giovine compagna, la vigilava e l’adorava come una vergine. L’Indiano che fu morso dalla vipera, e che curammo a bordo, fu subito raggiunto dalla sua sposa, che lo stette curando per venti giorni senza mai muoverglisi dal fianco. Il cacicche Pasquale a cui in una sorpresa fu portata via la moglie, vecchia e brutta, preparò una invasione, corse dietro le tracce, si battè come un leone e ritolse la sua compagna ai nemici. E questi son fatti accaduti sotto i miei occhi in poco tempo.
Quando un Indiano vi si presenta e vi chiede, non dimentica mai, nè i suoi figli, nè le spose, nè i parenti: e quando riceva alcuna cosa divisibile la riparte non solamente tra questi, ma anche tra i suoi compagni.
Ho visto sempre la madri amorosissime pei loro pargoli; ed è noto che le guerre tra le tribù e le uccisioni tra gli abitanti della medesima tolderia hanno quasi sempre per movente la vendetta delle offese recate ai compatriotti o ai parenti. E se non è affetto questo, quale è mai?
Sono crudeli però coi loro prigionieri di guerra che uccidono. Ma questa crudeltà non possiamo rinfacciargliela, noi che la usammo fino a ieri, si può dire; che la esercitammo in immensa scala contro gli stessi Indiani all’epoca delle conquiste; e che la usiamo ancora oggi contro gli stessi quando lo possiamo fare a man salva; e che son pochi istanti la stava usando contro i difensori della loro patria, l’Austria, gendarme patentato dai civili firmatarii del trattato di Berlino.
Tra gli Indiani, quest’uso di uccidere i prigionieri è una necessità di sicurezza personale nella loro vita nomade esposta a continue sorprese, poi li libera dalla vergogna della schiavitù, che non conoscono. Questo poi è uno dei fatti della maggior conseguenza nell’avvicendarsi delle schiatte, pel quale la superiore, o per forza o per intelligenza, si sostituisce per intero alla vinta, dando luogo così agli effetti di quel processo di selezione che è base scientifica della teorica Darviniana, e al quale si deve il graduale miglioramento delle razze d’ogni regno organico, per le quali tutta la lotta per la vita è concretata nel mors tua vita mea.
Sarebbero antropofagi questi Indiani qua? È una curiosità che si sveglia in tutti noi all’idea di tali selvaggi.
In America, l’antropofagia è stata in onore presso Ebrei e Samaritani, presso Barbari e Civili. I Caribi selvaggi, e i Messicani inciviliti, avevano i migliori piatti di lor cucina serviti a carne umana. I mansueti Peruani non sdegnavano lo intingolo di sangue umano per le loro Pasque, in cui ammassavano il pane di maiz col sangue tratto dalla fronte di fanciulli, beccaie pietose erano le gentili e belle monache loro.
Ma tra i primi l’antropofagia non andava più in là dei prigionieri di guerra, che, morti per morti, era trovato più pietoso e più utile farli prima godere e ingrassare, per poi arricchirne la parca mensa. Così è, che tra i Ciolulesi e i Tlascaltesi, che accompagnarono gli Spagnuoli all’assedio di Messico, fu motivo di orrore l’avere questi gradito per fame la carne dei loro compagni morti nell’assedio. È poi da credersi che la cucina avesse la sua parte nell’immenso numero di sacrifizii umani a Huitzlopotolili, onde i Sacerdoti, a mo’ dei Leviti, avessero per la loro tavola sufficienti bocconi buoni tratti dalle parti scelte delle vittime.
Qua nel Ciacco, anche se è stata in uso temporibus illis, cosa che non si può affermare, l’antropofagia, in oggi, o non esiste, o la si deve considerare ridotta ai minimi termini.
Taccio dell’uso di bere l’aloja nella cotenna strappata dal cranio del prigioniero e ridotta a coppa propiziatrice di vendetta e di vittoria, e vo’ dire d’un caso che ci darà qualche altro dato.
«Arrivato allora allora in Buenos Ayres, fui incaricato di andare nel Ciacco a dividere terreni sul Rio Salado. Allora da Cordoba a Santiago la strada si faceva tutta in diligenza. Ignaro dei costumi e fin della lingua del paese, mi accorsi ben presto che avrei fatto un cattivo viaggio, quando mi incontrai con un Brasiliano figlio di Francesi, che veniva a Santiago per trattare la vendita ai Taboada d’una grossa partita di mule. Viaggiatore consumato, francese e ben provvisto, offrì un’amenissima compagnia, sicchè fu presto fatta l’amicizia tra noi, e si passarono benissimo i sei giorni di viaggio.
Al separarci in Santiago, mi dice: Amico, se vi trattenete nel Ciacco qualche mese, spero che ci rivedremo; e siccome porterò molte centinaia di mule, avrò anche molte e buone provvisioni. Se vi trovo mi tratterrò due giorni con voi a festeggiare il nostro incontro con dei buoni bocconi e del buon vino, chè allora ne dovrete aver bisogno.»
Accolsi l’augurio e ci salutammo.
Erano trascorsi sei mesi, che avevo passato sempre tra le boscaglie e le lagune del Salado: un giorno improvvisa, dirotta pioggia, anticipata su quelle della prossima stagione, e che continuò, mi lasciò diviso dai miei compagni con pochi dei miei uomini: le orme cancellate dall’acqua pel terreno riarso, non consentirono rifare il cammino a incontrarci. Vagavo perduto, abbandonato al caso, fradicio mézzo, senza cibo da 24 ore, senza fuoco....
Improvvisamente sento spari di armi da fuoco, poi silenzio....
«Saranno i miei compagni che mi avvisano dove stanno,» esclamo, e mi dirigo verso la direzione dei tiri.
A un tratto vedo sul suolo una scatola di fiammiferi.
«Che è mai? penso tra me, noi non avevamo di queste scatole.»
Proseguo, e trovo gingilli da orologio, e poi un fucile a trombone e poi una sciabola insanguinata.... Mi si rizzano i capelli allora, ma continuo coi miei uomini.
Di subito scorgo uno e poi due e poi tre cadaveri, sanguinanti, caldi ancora, deformati orrendamente, la faccia inzaccherata nel sangue e nel fango, il petto squarciato e strappatene le viscere!....
Mi affretto a lavare il viso ai cadaveri e.... ancor mi piange il cuore!.... riconosco il Brasiliano, il mio compagno di viaggio, col quale ci eravamo augurato e promesso l’incontro sul Salado!... Ah, non potei trattenere un pianto dirotto!....
Raccolsi i cadaveri, e scavata una fossa, li collocai ciascuno sopra un cuoio di vacca uno sopra l’altro, e lor detti modesta sepoltura con immensa pietà....
Intanto campariva all’altro lato del fiume una banda di Mocoviti scappando, che battendosi le mani nella bocca cacciavano spaventosi gridi coi quali si facevano fuggire innanzi un gran branco di mule, poi volti verso di noi ci salutavano schernendoci e ostentando le viscere dei nostri amici, fumanti ancora e sanguinose.
Gli Indiani spiando i suoi passi, si erano approfittati di quando il Brasiliano, spedite avanti coi suoi uomini le mule meno stanche, erasi trattenuto al fogon prendendo mate, per piombargli addosso e finirlo rubando le mule rimaste.
Il Brasiliano si era difeso, come appariva, da leone, e i Mocoviti, superatolo, gli avevano strappato le viscere per farne orrendo festino.
Perchè è fama tra questi selvaggi, che il cuore del nemico valoroso morto combattendo, è alimento che inspira valore nei superstiti che ne mangino.»
Così mi narrava l’Ingegnere Braly. E queste scene nel Ciacco son frequenti! e smentiscono l’opinione di inoffensivi che loro attribuiscono alcuni, mentre non sono due mesi che una banda di cotesti Indiani tennero testa a più di 50 cristiani tra soldati e guardie nazionali, disfacendoli coll’uccisione di più di due terzi.
Nondimeno, siamo ben lungi dalle esagerazioni del Padre Lozano e di tanti altri viaggiatori, che hanno scritto del Ciacco probabilmente senza esservi stati e senza aver trattato con gli Indiani.
Io li ho visti si assaporare con avidità il sangue delle bestie macellate per nostro uso, ma non già farsi esclusivo alimento di esso e di quello degli altri animali, come scrissero alcuni, essendo invece lor principale alimento il pesce, la selvaggina, le radici e le frutta del campo, con le quali e col miele dei boschi abbondantissimo, formano anche le loro bibite fermentate, di cui parlai altra volta.
Sarei ingiusto però contro questi Indiani, se omettessi la narrazione di un fatto, che torna a loro onore.
Il Lettore ricorderà che il vaporino, al nostro servizio, era rimasto con l’equipaggio nel punto dove ci aveva raggiunto il soccorso, col quale Roldan e io facemmo la traversata a cavallo fino alla frontiera cristiana, distante 85 leghe. Tra i rimasti era quel Don Felix, il muratore spagnuolo che ci intratteneva le notti col canto e colla chitarra. Quest’uomo, noiato della vita di bordo, resa anche più trista dopo la nostra partenza, si ridusse al punto che, a sua istanza e per evitare sgradevoli accidenti, il Capitano del bastimento lo mise a terra e lo mandò con Dio, come si suol dire.
Ben presto l’infelice consumò le pochissime provvisioni che portava seco e si ritrovò solo e senz’armi in mezzo dei maggiori pericoli e della mancanza di ogni alimento, non essendo ancora la stagione delle frutta. Vagava dunque disperato, e tentando raggiungere la frontiera seguiva a ritroso l’andamento del fiume, ora pestando il greto, ora cacciandosi tra i boschi spinosissimi che s’interponevano tra una e un’altra giravolta del medesimo. Avrebbe potuto tornare indietro dopo le prime giornate, ma, fiero come ogni buono Spagnuolo, sdegnava implorare mercede a chi lo aveva insultato.
E ogni giorno peggiorava la situazione; a volte, smarrito il cammino nel laberinto dei viottoli, che gli si paravano davanti, si trovava chiuso tra fitte boscaglie senza uscita e allora, rabbioso e irresistibile per la disperazione, si precipitava attraverso la macchia, e lacerato, facendo sangue per mille ferite, sbucava alla riva, dove lo aspettava più prepotente la fame.
Seguitò così due mesi senza trovare anima viva che pur gli sarebbe stato probabilmente un nuovo pericolo, cibandosi di radici, di foglie e perfino d’erba. Solamente una volta gli fu dato trovare un arboscello con frutte, che non conosceva, e se ne empì lo stomaco e quant’altro potè. Ma fu una goccia al mare ed anzi, nell’anelo di rintracciarne altri, gli fu motivo di faticose, vane e disperate ricerche.
Finalmente una mattina, esausto già d’ogni forza e privo d’ogni alimento, dopo fatiche ormai irresistibili per lui, fu al greto del fiume, si curvò per bere e stette, senza potersi più rialzare, dardeggiato dagli strali di sole cocentissimo, e giacque come corpo morto....
Quanto tempo giacesse così, e come non rimanesse preda o di una fiera o di un yacaré, s’ignora: ma forse non erano passate ventiquattro ore, che un ronzio confuso gli molestò l’udito, e poi fantasmi neri gli parvero girare intorno alla sua testa vuota; e, fatto un leggiero movimento quasi a scacciarli, ricadde in deliquio o vi rimase, finchè parvegli goccie d’acqua gli piovessero addosso e una monotona cantilena gli sussurrasse all’orecchio, aperse gli occhi e si vide contornato da uomini e da donne indiane, steso sur un cuoio e atteso perchè ritornasse alla vita.
Fu per lui un momento ineffabile, per gioia della ricuperata consapevolezza di sè, e per sospetto di un danno maggiore e più atroce. Fece cenno che gli avvicinassero un fagotto che aveva portato seco, e lo trovò intatto: lo fece aprire e distribuì ai presenti tutta la biancheria che vi era contenuta. Poi, irritato dalla fame, chiese da mangiare e si satollò fino alla nausea d’ogni sorta di cibo grossolano di quei selvaggi. Stette tra loro alcuni giorni e appena potè reggersi sulla cintola, chiese lo trasportassero alla frontiera, accennando avrebbe rimunerato il servizio.
E noi un bel giorno consapevoli per fama incerta, d’un Cristiano smarrito e rintracciato dai selvaggi, lo vedemmo comparire dinanzi alla porta del nostro rancho, legato sopra un cavallo, sorretto da due Indiani, sparuto come un fantasma, incapace di articolar parola e con una espressione negli occhi da stornarne rabbrividiti la vista. Nel primo momento rimanemmo inchiodati sul nostro sedile nonostante la brama di soccorrerlo; poi avvicinatiglisi e slegatolo cadde come un cencio sulle nostre braccia, pianse e.... imprecò!....
Cotesti Indiani andando a pescare videro una mattina da lontano sulla spiaggia del fiume un corpo umano immobile: gli si avvicinarono e riconosciutolo all’abito e al pelame per Cristiano, invece di derubarlo e di ucciderlo, lo soccorsero come abbiamo veduto. Poi avvisarono alla frontiera, distante ancora più di 30 leghe, che avrebbero portato un Cristiano se non fossero stati molestati. Al loro arrivo furono meritamente regalati....
Questa miracolosa salvazione minacciò riuscire inutile. Benchè soccorso l’infermo del miglior modo possibile per il luogo in cui ci trovavamo, il suo stomaco rifiutando o rigettando ogni alimento, andava ogni giorno deperendo così, che ormai ne parve il caso disperato. Quando, ritornato dalla sua patria un Signore commerciante boliviano, propose gli fosse applicato sulla bocca dello stomaco una specie di senapismo fatto di carne, aceto o vino, e non so che altro. Fosse caso o virtù, da cotesta notte, che ne pareva l’ultima, principiò la sua guarigione, che in capo a tre mesi non era ancora terminata.
A chi si trovi in mezzo delle tribù indiane desta a poco alla volta meraviglia il non vedere nessuna persona deforme. Da questa circostanza alcuni viaggiatori hanno tratto motivo di pensare e di affermare, che gli Indiani, novelli Spartani, uccidessero le creature nate deformi. Alcuni storici sono di questa opinione.
Io però, mentre per mia parte confermo il fatto per osservazione personale, lo spiego colle circostanze fisiche e le condizioni sociali in cui si trovano questi Indiani. La vita liberissima, il cibo in generale sufficiente, checchè ne dicano i pietosi! ahi! troppo pietosi! l’andar nude, che vuol dire senza stringimenti di vita e di petto, le donne; il clima sano, almeno per loro, sono tutte circostanze fisiche, che devono rendere rarissimi i casi di deformità corporali nelle creature.
D’altra parte, lo stato di guerra continuo, le sorprese frequenti, l’uso di non dare quartiere, le belve e i rettili, devono farla presto finita con gli imperfetti e perciò inferiori negli elementi della lotta per la vita. E gli stessi fanciulli deformi devono probabilmente non godere del privilegio dei loro coetanei senza difetti, di essere cioè risparmiati dai nemici vittoriosi, che li riducono alle proprie tolderie per farne loro futuri guerrieri o future madri, che contribuiranno al progresso della nazione vincitrice.
Tutto ciò adunque, spiega sufficientemente la mancanza di individui deformi, senza ricorrere ad attribuir agli Indiani l’uso di uccidere o lasciar morire i neonati; e per mia parte posso addurre un fatto positivo, che smentisce tal supposto uso.
Proprio nel cuore del Ciacco trovai un Indiano sordo-muto, dell’età di un 30 e più anni. Certamente, se vi è un difetto che renda inutile un uomo e che gli faccia meritare l’eliminazione dalla società, è cotesto: come pure è uno dei difetti che anche nelle circostanze fisiche le migliori si può produrre in una creatura con facilità, quando essa sia frutto del commercio tra due persone troppo consanguinee: ora, questo commercio non è infrequente. E non vorrei parere di tirar l’acqua al mio molino dicendo, che mi è stato affermato che tra i rarissimi difettosi, cotesti sono i meno rari tra gli Indiani di qua, tra i quali del resto non ho visto, nè un cretino, nè uno col gozzo, che pure abbondano nella metà della Repubblica, cioè nel Nord e in tutto l’Ovest; fatto questo, di cui è probabile che una qualche volta vi intrattenga.
E per completare del sordo-muto, quando io n’ebbi sentore e lo vidi, fu precisamente perchè egli era stato assalito da un tigre che lo aveva straziato orrendamente, mentre costui stava raccogliendo legna. Una prova di più della difficoltà in questi deserti di lottare per l’esistenza senza tutti i sentimenti. Fummo chiamati per curare cotesto infelice, ma egli si rifiutò energicamente, confidando invece nei suoi stregoni. Tanto è vero che in ogni parte e in ogni stato sociale l’infelicità è il più saldo sostegno della superstizione e della sua sorella civile la Religione!
Non ostante tutto questo però, mi hanno assicurato Indiani stessi, che talvolta le madri lasciano morire le loro creature quando manchi il padre, o qualcun altro, che le riconosca e che perciò si faccia carico della loro alimentazione.
Ma deve essere ben rara tal circostanza, che non infirma la nostra argomentazione sui deformi, quando si pensi, che tra tutti gli abitanti della stessa tolderia, e sopratutto tra i consanguinei, havvi una solidarietà che innamora, mentre al contrario deve verificarsi con qualche frequenza nelle annate di carestia: la quale però non deve essere tanto sensibile considerando la varietà dei cibi, che accettano, e la parsimonia veramente meravigliosa a cui sanno assoggettarsi nelle necessità, e di cui si rifanno a usura quando si trovano nell’abbondanza.
Perchè è davvero straordinaria l’elasticità di stomaco di questi selvaggi, a cui l’inerzia della vita consente una estrema sobrietà, e l’aria aperta, gli esercizi della caccia, della pesca, della raccolta e del viaggiare per questi oggetti e per la guerra, unito tutto ciò a una salute di ferro, lor permette di empirsi come otri.
E vedete o sia consanguineità di stirpe, o piuttosto immensa analogia nel sistema di vita, una tale vicenda di somma parsimonia e di enorme voracità, voi la trovate anche nel gaucho, e in generale in tutti gli abitanti del campo della Repubblica e, probabilmente, degli altri popoli in eguali condizioni sociali. Tant’è: le stesse cause producono gli stessi effetti dovunque.
Quest’Indiani sono gelosissimi dell’uguaglianza. Non ammettono la sperequazione, e le donne son le prime a reagire contro le compagne cui le doti naturali o le facoltà del marito procacciassero favori ed ornamenti speciali.
Non posso dimenticarmi d’un’agra disillusione che ebbi una volta. Tajo il mio maestro di lingua mattacca, ha per moglie una bella dal tipo gitano che arieggia alla lontana una delle più belle signore di Buenos Ayres. Il marito ne era innamoratissimo, ed io non credei far cosa migliore che regalando la sua sposa di varii ornamenti e di vesti. Il suo sposo si associò allo stesso intento, sicchè la bella giovine ebbe da ornarsi come nessuna.
Quando si mostrò tra le sue compagne, in costume quasi all’orientale con colori svariati e smaglianti, fu un’ammirazione generale, ma fu anche una protesta generale.
Io, che molte fiate credo d’aver avuto il difetto d’un platonismo artistico, trovandomi nella tolderia una volta, desiderai veder la bella Mattacca nel nuovo costume, e mi pareva di averne diritto, ma non potei mai conseguirlo. Il cacicche glielo aveva proibito, perchè le altre cine si erano lagnate di tanto lusso che le avviliva, e la Bella per acquietarle aveva dovuto ripartir con loro le sue vesti ed usare le rimastele, a spilluzzico e di rado.
Vi son dunque leggi suntuarie anche tra i selvaggi!