Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XXI
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XXI
STATO SOCIALE
(continuazione)
Già abbiamo visto come essi manchino di religione, che ancora non è che allo stato d’una semplice superstizione. E benchè le religioni, in ciò che ne costituisce con la forma la sostanza, non possono riguardarsi che come un cumulo di cerimonie assurde, molte volte anche crudeli, sempre frutto di una impostura raffinata e di una ingenuità inconsapevole per l’abito. Vedansi le prediche degli oratori sacri delle diverse sette, pure la mancanza di esse sette segna appunto nella storia de’ popoli quella della civiltà, perchè dimostra la loro inabilità a creare quei complicati, formidabili e portentosi castelli, propri di tutta una armatura e un apparato di religione.
Intendiamoci però, che l’opinione, la quale io esprimo sulle religioni, non ha che fare col concetto speculativo che le dirige e le fa rispettabili. Non ha che fare colla ragione storica che le determina e in cui trovano la loro forza, nè colla funzione sociale che disimpegnano e in cui trovano il motivo della loro espansione e della tenacità che offrono all’azione distruggitrice delle vicende inevitabili dei tempi. Solamente è lamentabile, che lo stato del genere umano non sappia ancora trovare lo svolgimento delle sue ragioni storiche e l’attuazione delle sue funzioni sociali fuori della religione, lo sgombro della quale impone più tardi tante fatiche e tanti danni da farne maledire i benefizii ricevuti a suo tempo. E questo sia detto con tutto il rispetto del mondo per tutti i fedeli di tutte le religioni passate, presenti e future.
Questi Indiani non distinguono le stagioni che per le raccolte a cui danno luogo: così dicono l’epoca dell’algarroba, quella del mistol, l’altra della cova, ecc. E come potrebbero infatti principiare da dividere l’anno in mesi o in lune se non contano più di quattro? Questo stesso, anzi ci garantisce a priori che non si sono mai curati di afferrare le regole del movimento della terra, o del sole per dir relativamente meglio.
È cosa curiosa però che dividono il giorno in una immensità di parti espresse secondo l’altezza del sole e che tengono luogo delle nostre ore. Essi poi distinguono diverse costellazioni, come le pleiadi, venere, la via lattea, il centauro.
Intanto non hanno la parola che esprima l’anno.
I Mattacchi ne hanno una, ch-lúpp che vuol dir epoca, e che è d’un periodo indeterminato come tra noi l’epoca; per giorno dicono sole (i-quá-la), e per mese luna (i-gue-lách). Conformi in questo col linguaggio di tutti i popoli, che presso noi è rimasto genuino nel linguaggio poetico, e nel volgare ha sofferto progressivamente tali trasformazioni da far apparire le parole relative come indipendenti dal primitivo loro significato materiale di sole e di luna.
O che la luna la assomiglino a un lume o piuttosto il lume ad una luna, il fatto si è che chiamano con lo stesso nome la luna e una luce.
Ma non il fuoco, a cui devono attribuire qualche speciale proprietà, perchè i Ciriguani condannano ad essere bruciati i cadaveri di quelli morti in odore, anzi in sapore di cattivi, e i Toba e una parte dei Mattacchi invece i cadaveri di chiunque. Quest’ultima pratica si può spiegare col desiderio di realizzare il più presto possibile la condizione favorevole al morto, che cioè le sue carni sieno consunte acciò l’anima possa scendere sotterra tra le compagne.
Benchè non conoscano nè il fosforo, nè lo zolfo e neppure l’acciarino, non avrebbero qua nemmeno la pietra, pure accendono il fuoco quando vogliono. Già dissi come, cioè frullando rapidamente uno stecco sopra un altro posto a giacere, fino a che la polvere che ne esce, e che par di caffè tostato, non si accenda, allora vi soprappongono materiali molto combustibili, vi soffiano dentro e ne ottengono la fiamma, e poi l’incendio se vogliono. Uno almeno degli stecchi usati è di cilca, alberello fragrante, resinoso e poroso, che si trova abbondantemente sparso in tutta la Repubblica.
È costume dire che ogni Indiano fa tutto da sè: e se ne è tratto motivo a dedurne la lentezza e il ritardo nelle loro azioni. Eppure non è così. Benchè erranti, hanno nondimeno la divisione del lavoro: e fra loro havvi l’armaiolo, il canottiere, il fabbricatore di reti, il tessitore ecc.; questi vendono ai loro compagni ricevendo in cambio un altro oggetto. Hanno dunque i loro ufficii di arti e mestieri: ma in embrione si intende. Ed hanno anche le parole apposta per esprimerli; e son formate, presso i Mattacchi, dalla parola esprimente l’oggetto e da una particella esprimente la funzione. Di queste particelle hi (h nasale) indica possesso, deposito; guu indica fattura, fabbricante; kiá indica rimedio, cioè quegli che procura una cosa: per esempio pesce jach-sét, pescatore jach-sét-kiá; freccia túték, fabbricanti di freccie túték-guu, possessore di freccie túték-hi. E in virtù di queste stesse particelle, un baule e una gabbia la prima volta che li vedono li chiameranno, e li chiamano, imai-hi, cioè guarda-roba; huentié-hi, cioè guardauccelli.
Una delle industrie più avanzate è quella del tessere, in cui come altra volta ho detto non usano la spola, ma una stecca di un palmo colla quale comprimono la trama a mano; e un’altra è quella del far le reti, che possono essere anche di 15 e 20 metri di lunghezza. Ma per una certa eleganza e per la elasticità di cui sono dotate, si distinguono le borse, in cui le maglie sono come i riccioli dei capelli estensibili così, che a seconda del ripieno una piccola borsa acquista notevole corpulenza, mantenendo sempre la stringitura conveniente, perchè gli oggetti non saltino fuori. Usano dei disegni, ma tutti geometrici, come striscie parallele, triangoli e quadrati.
Merita una speciale menzione quella dei canotti, che formano di un sol pezzo dal tronco del corpulento e sugheroso giuccian scavato rozzamente e poi varato.
Gli utensili che quei selvaggi impiegano, sono i gusci di una specie di grosse ostriche, simili a quelli che volgarmente in Toscana si chiamano telline, le quali abbondano nelle lagune del Ciacco: e poi i denti di tigre, pali durissimi e mascelle di pesci, quali la palometa, con cui si tagliano anche i capelli e la poca barba che hanno.
Non solamente non ignorano la ceramica, ma è quella tra le industrie in cui, rispetto a noi, sono meno inferiori.
La cucina deve aver contribuito molto alla nascita di cotesta industria, ma la pietà pei morti è quella che ne ha determinato lo sviluppo e un relativo progresso. Infatti, i Mattacchi, i Toba, i Ciulupi ed altri, che non mettono in pentola i cadaveri, hanno vasi rozzi e senza verniciare per la cucina; ma quelli che vissero a Santiago e i Ciriguani in Bolivia, mentre hanno vasi come coppi, li hanno oltre a ciò molto ben verniciati e dipinti e smerlettati: e nei più grandi e nei più belli rinchiudono i corpi.
I vasi per acqua hanno quasi sempre una strozzatura nella pancia, per dove passano la fune colla quale, raccomandata alla fronte, li sostengono, curvo il collo, sul dorso. Questo modo di caricarli è ben lungi dall’arieggiare la grazia del vaso sulle teste delle nostre contadine, e piuttosto fa’assomigliare quelle stupide cine a bestie da soma; ma è forse più igienico.
D’agricoltura non s’intendono, nè costumano; nondimeno seminano qualche volta del maiz (che si sa essere originario d’America) e delle zucche. All’epoca che credono che possa essere buona a mangiarsi la raccolta, vanno e raccolgono. Non lo macinano il maiz, ma questo e le zucche mangiano lesso o arrosto finchè son freschi: una raccolta perciò è fatta a poco per volta e dura qualche tempo. Per seminare usano una vanga di legno duro fatta come un piccolo remo, o come una grande punta di lancia, l’uomo apre la terra, la cina getta il seme e lo tappa, e addio. La sementa la fanno su un campo bruciato, fresco cioè quando sia piovuto da poco tempo.
La raccolta è in comune, ma son gelosi del prodotto. Quando eravamo a bordo, esauriti ormai quasi tutti i viveri e affamati di cibi freschi ed erbaggi, per essere più di tre mesi che ne eramo privi, fu accolta con gran gioia la presentazione di spighe di maiz e di zucche che ce ne fecero alcuni Indiani amici; amici, ma che pure ammazzarono il nostro interprete. I marinari poterono scuoprire dove era lo zuccaio e il granturcaio e furono nascostamente a sottrarne. Or bene, il giorno dopo tornati per ripetere la storia, trovarono le piante fino a una e le zucche tagliate o divelte o trinciate, insomma interamente rese inutili. E di cotesti Indiani non ne fu visto più uno.
Del resto, sembra che i Cristiani non desiderino che gli Indiani si dieno all’agricoltura. Mi si affermò che avendo essi trovato dei campi seminati dagli Indiani della frontiera amici, distrussero tutto il seminato, e che da allora gli Indiani di li non hanno più lavorato un palmo di terra. Tal desiderio risponde a un interesse, che è di impedire che gli Indiani prendano così possesso, riconosciuto allora legittimo anche dalle Leggi argentine, dei buoni terreni che i Cristiani limitrofi o vicini considerano come prossima loro preda.
Non usano il commercio: e come potrebbero usarlo senza agricoltura e senza industrie, tutti perequati e nomadi? Nondimeno usano in piccola scala il cambio, unica forma primitiva di commercio in embrione: e non hanno nemmeno le parole corrispondenti a vendere e comprare; e per esprimere queste idee si direbbe fossero andati a scuola da un economista a imparare il do ut des, la formula del cambio: perchè infatti i Mattacchi, per esempio, per dire vendimi dicono atchioch nichioch cioè dammi ti do.
Si comprende quindi che non hanno moneta; la parola però se la sono formata per chiamare lo nostra quando l’hanno vista: ed essa è tra i Mattacchi tdóch-chjnat, che vuol dire cuoio e pelle di metallo, chjnat essendo la parola generica che esprime qualunque metallo che non esiste, nè circola nella pianura del Ciacco.
Nondimeno, una specie di moneta, sempre al solito in embrione, la posseggono gli abitatori del Ciacco in una materia per dipingersi, che è preziosa per essi anche in piccolissimi volumi. A Santa-Cruz, in Bolivia, è chiamata urucú la pianta che la dà, e la sostanza che produce, si ottiene facendo bollire notte e giorno il frutto, che lascia alla superficie la materia colorante, la quale si raccoglie e si riduce in pallottole di diversa grandezza. Il colore lo dà la buccia del pomo, che è della grandezza di un’arancia; la buccia nerastra pel color nero, gialla aranciata pel rosso e bianca pel verde; queste due ultime sono della grossezza d’una noce. Tutte e tre vengono d’una diversa specie di urucú, che son piante alte come un uomo, con i frutti grossi come quelli del melagrano, che si aprono da sè quando son maturi.
Questa sostanza, benchè prodotta e fatta in Bolivia, circola tra tutti gli Indiani del Ciacco; e serve loro per tingersi di rosso in segno di amore, di nero in segno di terrore e di verde per ornamento; colori questi che si cancellano con la massima facilità.
E a proposito di ornamento, questi Indiani qua usano più o meno il tatuaggio, che ho visto molto sviluppato in alcuni campioni Toba e specialmente donne. Sembra una picchiettatura del vaiuolo, ed è disposto in forme geometriche. Se lo fanno pinzando la pelle con una grossa spina bagnata in una sostanza lattiginosa bruciante, che lascia l’impronta indelebile ove cada, e che viene iniettata nel tessuto epidermico. Questa sostanza è soprattutto in Bolivia, a Santa Cruz, e si chiama, in termine guarany, iguochi; col qual nome si chiama anche la pianta; è una rampicante, che forma grappoli che portano fiori bianchi e frutti con punta rotonda, da cui scoppiati casca polvere. Per ottenere l’iguochi staccano prima che sia maturo un grappolo, e dal gambo ne esce il latte che inoculano: durante l’operazione tengono il gambo dentro l’acqua perchè non ne esca il latte. Di queste piante ne fu vista una da un Ciriguano a 20 leghe fuori della frontiera cristiana, sul rio Bermejo (Vermiglio), nel punto chiamato la luna nueva.
Un uso, fratello carnale del tatuaggio per l’oggetto che si propongono, è l’estirpazione dei peli, che è universale presso gli abitanti del Ciacco e forse anche presso tutti gli Indiani del nuovo Mondo.
Ha per oggetto l’ornamento, ma forse la causa vera ne è l’igiene e il comodo.
Fors’anche vorranno distinguersi così dagli altri animali, che son pelosi.
Intanto, o che lo sieno per originarietà, o piuttosto per effetto di graduale selezione conseguente a tal uso, gli Indiani son quasi interamente privi di pelo nel corpo e nella faccia, e quel poco che hanno se lo levano volentieri, salvo pochissime eccezioni.
Nonostante la completezza del loro linguaggio, non ho potuto scoprire canti, nè qualche cosa di musicale che vi si avvicini. Solamente potei conoscere tra i Mattacchi questo tentativo di poesia, Dio sa come cantato dalle cine, il quale nondimeno rivela l’uso della rima:
Bonicha, namhonícha
Se-lé- ctié-nó;
bonicha, bonicha;
nambonicha nambonicha;
che vuol dire: mi dispiace, mi piace che mi abbracci; non mi piace, non mi piace, mi piace, mi piace.
E non hanno balli, perchè non si possono chiamare così i giri-tondo sfrenati che fanno, presi tutti per le mani. Son però casti nei balli, e se uomini e donne sono uniti, formano ciascun sesso un circolo a parte uno dentro l’altro: ma non si toccano.
Insomma, tutto ciò che è immaginazione, o si chiami religione o poesia o cancan, si può dire completamente assente da questi selvaggi.