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164 parte prima

alcuni, essendo invece lor principale alimento il pesce, la selvaggina, le radici e le frutta del campo, con le quali e col miele dei boschi abbondantissimo, formano anche le loro bibite fermentate, di cui parlai altra volta.

Sarei ingiusto però contro questi Indiani, se omettessi la narrazione di un fatto, che torna a loro onore.

Il Lettore ricorderà che il vaporino, al nostro servizio, era rimasto con l’equipaggio nel punto dove ci aveva raggiunto il soccorso, col quale Roldan e io facemmo la traversata a cavallo fino alla frontiera cristiana, distante 85 leghe. Tra i rimasti era quel Don Felix, il muratore spagnuolo che ci intratteneva le notti col canto e colla chitarra. Quest’uomo, noiato della vita di bordo, resa anche più trista dopo la nostra partenza, si ridusse al punto che, a sua istanza e per evitare sgradevoli accidenti, il Capitano del bastimento lo mise a terra e lo mandò con Dio, come si suol dire.

Ben presto l’infelice consumò le pochissime provvisioni che portava seco e si ritrovò solo e senz’armi in mezzo dei maggiori pericoli e della mancanza di ogni alimento, non essendo ancora la stagione delle frutta. Vagava dunque disperato, e tentando raggiungere la frontiera seguiva a ritroso l’andamento del fiume, ora pestando il greto, ora cacciandosi tra i boschi spinosissimi che s’interponevano tra una e un’altra giravolta del medesimo. Avrebbe potuto tornare indietro dopo le prime giornate, ma, fiero come ogni buono Spagnuolo, sdegnava implorare mercede a chi lo aveva insultato.

E ogni giorno peggiorava la situazione; a volte, smarrito il cammino nel laberinto dei viottoli, che gli si paravano davanti, si trovava chiuso tra fitte boscaglie senza uscita e allora, rabbioso e irresistibile per la disperazione, si precipitava attraverso la macchia, e lacerato, facendo sangue per mille ferite, sbucava alla riva, dove lo aspettava più prepotente la fame.

Seguitò così due mesi senza trovare anima viva che pur gli sarebbe stato probabilmente un nuovo pericolo, cibandosi