Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XIII
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XIII
USI NUZIALI
La donna anche tra loro è una delle passioni principali; e benchè ai Cristiani possa perere troppo aggravata, vedendola carica della soma a lato dell’uomo che porta solo le sue armi, pure non vi è trattata peggio della immensissima maggioranza delle donne tra noi, non potendo aver importanza l’eccezione delle poche signore nostre che non faticano perchè pagano altre che fatichino per esse.
D’altra parte l’Indiano non cammina senza proporsi la caccia, e senza il timore di battersi. Come dunque potrebbe provvedere alla offesa e alla difesa quando egli fosse il caricato?
Al contrario, la parte della donna nella società indiana è perfettamente regolata coi bisogni sociali e con le sue attitudini fisiche. Essa non caccia, non pesca, nè si batte, ma cura la casa, la cucina e la famiglia, ed è operosissima.
Ora va a cercar radici, ora le frutta del bosco; ora pettina il cháguar e fila, ora fa reti, fa borse e tesse; ora appronta la cucina, compone la casa, fa le bibite fermentate per gli uomini, conserva le provviste; ora aiuta il compagno a seminare, ponendo i chicchi nei buchi degli scarsissimi còlti; ora è attenta a raccogliere. Ed è madre.
In tutte le tolderie dove sono stato mi ha meravigliato quell’insieme di casa nostra campereccia nelle occupazioni delle donne, intente sempre al lavoro. Donna si dice in mattacco tziná e chiéqua o céqua, e quest’ultima parola vuol dire anche moglie.
Un Indiano può avere più mogli, ma rare volte le tengono nella stessa capanna; il numero dipende dalla ricchezza che abbia il marito per mantener le diverse famiglie; ricchezza non stabile, può esistere tra questi nomadi, ma ricchezza mobile dirò, che può consistere in pelli, in pecore e anzitutto nelle attitudini al lavoro e predare che possiede l’uomo.
Son pochissimi, e forse nessuno, i cacicchi che abbiano una sola moglie. La moglie può essere ripudiata, e allora ridiventa padrona di sè, ma rare volte si rimarita, perchè quasi sempre si trova ad aver perduto le attrattive della gioventù, e perchè spera che il marito torni a ricordarsene e perchè glielo impedisce il pudore di fronte alla tribù. Un ripudio però è quasi sempre motivo di disgusti e di vendette tra le famiglie.
In luoghi come questi qua, dove la donna perde presto ogni attrattiva, e dove le continue battaglie decimano gli uomini, l’uso della poligamia è una necessità sociale per la tribù, chè se no rimarrebbe spopolata, è una necessità fisica per l’uomo e per le molte donne, perchè diversamente rimarrebbero celibi. Nondimeno non mancano le traviate e le prodighe, per le quali havvi il nome di amoeccue.
L’Indiano è geloso e crudele con la donna creduta infedele. La volta che facemmo visita alla tolderia di Peiló, una donna che parve al marito non si fosse sottratta con troppa prontezza allo scherzo di un soldato, la udimmo percuotere dallo sposo dentro il toldo e minacciare di morte: «nú-ai-lonlá» (ti ammazzerò), le borbottava tra i denti. E altra volta, a una donna, che, dopo due anni di assenza del marito, si era unita con altro, quegli appostatala, la rincorse, la raggiunse e le sbranò la pancia prima che i Cristiani giungessero ad impedirlo. Cotesta donna non morì, e risanata tornò a convivere col suo carnefice.
Quando gl’Indiani pretendono ammogliarsi, si tingono di rosso i pomelli, le guancie e le cavità degli occhi. Alla dama del cuore, l’uomo fa la dichiarazione accompagnata da regaluzzi: e se la donna accetta, l’uomo le fa la dote di quel che ha, come pecore, galline, pelli, ecc. Se le famiglie sono contente, gli sposi vanno a vivere presso una di esse, altrimenti si cambiano di toldo e spesso anche di tolderia. Ottenuto il consenso, la cerimonia nuziale è la consumazione.
Quest’uso di far la dote il marito, può parere strano a noi altri assuefatti al contrario, eppure anche tra noi e tra i diversi popoli indo-europei si è accostumato, e si può dire si accostuma talvolta, così, per esempio, noi abbiamo in alcuni casi la controdote; la legge longobarda aveva il mundium, il diritto di tutela che passava dal padre al marito mediante una somma pagata da questo a quello; tra i Romani vi era la coemptio, cioè la compra (emptio), o dote, reciproca tra marito e moglie.
Nell’India antica si usava il marito dotare la moglie con una moneta e con bestiame; nell’antica Grecia sembra s’usasse lo stesso, da un passo dell’Iliade; presso gli antichi Finni, i Turchi e i Turcomanni odierni, lo sposo compra la sposa. In proposito si veda Degubernatis.
Ve lo ripeto, anche questi Indiani son uomini e si comportano come gli altri uomini. Presso i Ciriguani, l’uomo, quando vuole chiedere una ragazza, pone alla porta di lei un fastello di legno, e un capriolo o altro commestibile; se la donna la mattina dopo si fa vedere accendere il fuoco e prepara il cibo con gli oggetti presentatile, è segno che la proposta è accettata e il giovane va alla mensa preparata. Un egual costume è attribuito da alcuni anche ai Mattacchi: ma le informazioni che ho preso a proposito me lo fanno smentire.
Tal uso ne richiama quello che vige in Pinerolo, dove la fanciulla va a accendere il fuoco quando un damo le deve piacere: il non fare, come la chiamano, tale onestà val quanto congedare il pretendente; e l’altro che esiste nell’Abruzzo Ultra Primo, dove il giovane porta la notte, all’uscio della ragazza, un ceppo di quercia detto tecchio; se il ceppo è messo in casa, può entrarvi anche il giovanotto, se no, a questi non resta che ritirarlo di nascosto e cambiar uscio.
Nell’India, se lo sposo era un brahamano donava una vacca alla sposa, se un agricoltore e un mercante un cavallo; ai tempi di Tacito l’uso della vacca vigeva in Germania, e pare tuttora in Isvezia: come pure un gallo.
I cacicchi ciriguani però hanno un privilegio, ed è che non possono essere rifiutati dalle loro predilette; questa predilezione in fine la considerano come una fortuna. Il cacicche palesa la sua voglia offrendo alla ragazza un pezzo di carne, o altro: la ragazza lo cucina, e la mensa e la casa divengono comuni. I cacicchi, specialmente i generali vale a dire quelli che hanno sotto di sè diverse tolderie, ne hanno almeno una per tolderia.
Dopo due o tre giorni dall’epoca del parto la madre e la creatura sono lavate: il puerperio non suol durare di più.
Chi vuol vedere del cristianesimo in tutto il mondo, scorge in un tal uso esclusivamente igienico una copia del battesimo!
Il padre riconosce il figlio, lo prende sulle sue braccia dicendo: «questo figlio è mio.» In alcune tribù si usa pure che il marito giaccia sul letto di parto della moglie come atto di riconoscimento; e tra i Ciriguani l’uomo prende il posto al lato della donna e per tre giorni riceve le attenzioni come.... puerpero! Dopo si alza ma non viaggia, nè lavora fino ai sette giorni in cui si alza anche la donna e si lava. Durante il puerperio, i coniugi non prendono che acqua, mote e mazamorra, che son vivande di granturco molto liquide, e brodo di fagiuoli; niente di carne.
È frequente che un uomo abbia per ispose due e più sorelle contemporaneamente. E credo di potere affermare che il padre talvolta non isdegni la propria figlia. Se non vi è chi riconosca o adotti la creatura, la madre può ucciderla.
Le Indiane son abilissime levatrici: i Cristiani stessi se ne prevalgono: dicono che sanno cogliere con rara felicità il momento della crisi e che allora sostengono più o meno ritta la sofferente e pare anche la scuotano, senza però offenderla. Vi accompagnano parole a cui attribuiscono valore gli Indiani e più che mai i Cristiani che non le intendono. È il solito!
Non crediate però che tutto il loro fare all’amore consista solamente in una pantomima più o meno espressiva, chè anzi hanno parole ed espressioni e lingua, che ben si prestano alle manifestazioni gentili, e di cui si servono. Già è a tutti noto come la lingua dei Guarany è armoniosa, anche troppo, in bocca loro e in quella dei Ciriguani, di cui pure è la lingua patria, ma anche i Mattacchi, i rozzi Mattacchi, che sembrano gli ultimi nella scala antropologica di questi Indiani del Sud America, hanno le loro espressioni armoniose e le idee gentili che vi corrispondono.
Mi rammento d’una volta a bordo, che vi fu una bella Indiana, che se ne stava muta e impassibile e quasi cupa. Mi fa Faustino: «Digale am iss, con expresion:» e io a soffiarle in un orecchio: am iss, e la bella Indiana sdoppiò suo malgrado le labbra ad un impercettibile sorriso, perchè le avevo detto: «Tu sei bella!» Altra volta in una tolderia avevo assistito alla cura di un ammalato fatta dai medici indiani; vi assisteva anche una giovane, che è la più bella Indiana che finora ho visto.
Sopraggiunge un tenente e mi dice forte: Que buena moza, ché? — Como no! rispondo io. E la Indiana tra il chiaro-scuro: Teniente toc tzi-la-tá! che vuol dire: «Il tenente si che è bello!» ma lo disse con tanta grazia di voce e con un atto tra ingenuo e civettuolo, tappando il viso dietro le spalle di un’altra e lanciando intanto un’occhiata lampeggiante, che io invidiai dal profondo del cuore il bel tenente.
Ecco un dialogo tra un giovane e una giovane.
Uomo. — Chi sarà quella li bellina che mi garba tanto?
Donna. — Chi sarà quello li bellino che gli voglio tanto bene?
Questo è un ritornello daddoloso che sembra lo usino molto.
Poi avvicinatisi:
U. — Ogni volta che ti vedo mi viene voglia di acchiapparti: chi sa che un giorno tu non caschi nelle mie braccia.
D. — Chi lo sa, camminando andiamo!
U. — Se mi vuoi bene, lasciamiti far carezze.
D. — Non mi devi far carezze, perchè mi vuoi bene: tu hai donna.
U. — Non ho chi mi possa dir niente; son solo, e se non fossi solo non ti parlerei così. — Addio! domani parto: sto fuori due anni....
D. — Oh!... mi rincresce.... Mi accorgerò della tua mancanza!...
U. — Non ti maritare in questo tempo.... Ti porterò vezzo, pezzuola da capo, aghi e filo.... Addio!
D. — Addio.... ritorna presto!
Mi astengo dal porre l’originale mattacco per tema di noiare. Ma ditemi se non trovate in questo dialogo da me raccolto i medesimi sentimenti e le espressioni come tra due persone di nostra stirpe?
Un matrimonio fatto in regola è celebrato con bevande spiritose, fatte coi baccelli dell’algarrobo e del vinal, e col miele dei boschi; di che v’intratterrò nel capitolo seguente.