Osservazioni sulla morale cattolica/Capitolo VI
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CAPITOLO SESTO
La distinction des péchés mortels d’avec les péchés véniels effaça celle que nous trouvions dans notre conscience entre les offenses les plus graves et les plus pardonnables. On y vit ranger les uns a cóté des autres les crimes qui inspirent la plus profonde horreur, avec le fautes que notre foiblesse peut à peine éviter. Pag. 414.
Si può credere che l’illustre autore ammetta in sostanza, con la Chiesa cattolica, la distinzione de’ peccati in mortali e veniali di loro natura; poichè divide le offese in più gravi e in più perdonabili. È noto che questa distinzione fu apertamente rigettata da Lutero e da Calvino; i quali ritennero in vece i due vocaboli, ma dandogli un tutt’altro significato, repugnante alla ragione comune, non meno che alla fede cattolica. Ecco una delle proposizioni del primo su questo punto: Perciò dissi1 che nessun peccato è veniale di sua natura, ma che tutti meritano la dannazione; e che l’essere alcuni veniali è da attribuirsi alla grazia di Dio2.» E, in termini non meno espliciti, il secondo: «Tengono i figlioli di Dio, che ogni peccato è mortale3; perchè è una ribellione contro il voler di Dio, la quale provoca necessariamente la sua ira; perchè è una prevaricazione dalla legge, prevaricazione alla quale è intimato, senza eccezione, il giudizio di Dio; e che le colpe de’ santi sono veniali, non di loro natura, ma perchè ottengono il perdono dalla misericordia di Dio.»
La censura dell’illustre autore non cade dunque che sull’applicazione della massima, cioè sulla classificazione de’ peccati, che dice opposta a quella che trovavamo nella nostra coscienza. Su di che mi fo lecito di osservare prima di tutto, che la nostra coscienza, priva della rivelazione, non può mai essere un’autorità a cui ricorrere per riformare in ciò il giudizio, non solo della Chiesa, ma qualunque giudizio: non sarebbe che appellare da una coscienza a un’altra.
Al sentire che la distinzione de’ peccati mortali da’ veniali «cancellò quella che trovavamo nella nostra coscienza, tra l’offese più gravi e le più condonabili,» parrebbe che, quando la Chiesa insegnò questa distinzione, n’abbia trovata nelle menti degli uomini una anteriore, precisa e unanimemente ricevuta, e che a questa abbia sostituita la sua. Ma il fatto sta che il principio astratto di questa distinzione era bensì universalmente ricevuto, e faceva parte del senso comune; ma che, riguardo all’applicazione, il giudizio della coscienza era (come s’è osservato più volte) vario secondo i luoghi, i tempi, e gl’individui; che ad alcuni faceva parer colpa grave ciò che per altri era colpa leggiera, o non colpa, o anche virtù; che alcuni perfino (e non erano i meno pensatori) tenevano che tutte le colpe fossero pari; e, per conseguenza, rifiutavano il principio medesimo. La Chiesa, istituita per illuminare e per regolare la coscienza, la Chiesa, fondata appunto perché questa non era nè incorrotta, nè unanime, nè infallibile, non può esser citata al suo tribunale.
Quale doveva dunque essere per la Chiesa il criterio a giudicare della gravità delle colpe? Certo, la parola di Dio.
Uno degli uomini che hanno più meditato, e scritto più profondamente su questa materia, sant’Agostino, osserva che: «alcune cose si crederebbero leggerissime, se nelle Scritture non fossero dichiarate più gravi che non pare a noi; e da ciò appunto deduce che: col giudizio divino, e non con quello degli uomini si deve decidere della gravità delle colpe4. Non prendiamo,» dice anche altrove, «non prendiamo bilance false per pesare ciò che ci piace, e come ci piace, dicendo, a nostro capriccio, questo è grave, questo è leggiero; ma prendiamo la bilancia divina delle Scritture, e pesiamo in essa ciò che è colpa grave, o per dir meglio, riconosciamo il peso che Dio ha dato a ciascheduna5.» Perchè, il vero appello è dalla coscienza alla rivelazione, cioè dall’incerto al certo, dall’errante e dal tentato all’incorruttibile e al santo.
Che se, con questa coscienza riformata e illuminata dalla rivelazione, osserviamo quello che la Chiesa c’insegna sulla gravità delle colpe, non troveremo che da ammirare la sua sapienza, e la sua fedeltà alla parola divina, della quale è interprete e depositaria. Vedremo che quelle cose che essa ascrive a peccato grave, vengono tutte da disposizioni dell’animo contrarie direttamente al sentimento predominante d’amore e d’adorazione che dobbiamo a Dio, o all’amore che dobbiamo agli uomini, tutti nostri fratelli di creazione e di riscatto; vedremo che la Chiesa non ha messo tra le colpe gravi nessun sentimento che non venga da un core superbo e corrotto, che non sia incompatibile con la giustizia cristiana, nessuna disposizione che non sia bassa, carnale o violenta, che non tenda ad avvilir l’uomo, a stornarlo dal suo nobile fine, e a oscurare nella sua anima i segni divini della somiglianza col Creatore; e sopra tutto nessuna disposizione per la quale non sia espressamente intimata nelle Scritture l’esclusione dal regno de’ cieli. Ma, specificando queste disposizioni, la Chiesa ha ben di rado enumerati gli atti in cui si trovino al punto di renderli colpe gravi. Sa e insegna che Dio solo vede a qual segno il core degli uomini s’allontani da Lui; e fuorchè ne’ casi in cui gli atti siano un’espressione manifesta dell’essersi il core ritirato da Lui, essa non ha che a ripetere: Chi è che conosca i delitti6?
Oltre le disposizioni, ci sono dell’azioni per le quali nelle Scritture è pronunziata la morte eterna: sulla gravità di queste non può cader controversia.
Oltre di queste ancora, la Chiesa ha dichiarate colpe gravi alcune trasgressioni delle leggi stabilite da essa con l’autorità datale da Gesù Cristo. Non c’è alcuna di queste leggi che tema l’osservazione d’un intelletto cristiano, spassionato e serio; alcuna che non sia, in un modo manifesto e diretto, conducente all’adempimento della legge divina. Non sarà qui fuori del caso di discuterne una brevemente.
È peccato mortale il non assistere alla Messa in giorno festivo.
Chi non sa che la sola enunciazione di questo precetto eccita le risa di molti? Ma guai a noi, se volessimo abbandonare tutto ciò che ha potuto essere soggetto di derisione! Quale è l’idea seria, quale il nobile sentimento, che abbia potuto sfuggirla? Nell’opinione di molti non può esser colpa se non l’azione che tenda direttamente al male temporale degli uomini; ma la Chiesa non ha stabilite le sue leggi secondo questa opinione sommamente frivola e improvida: la Chiesa insegna altri doveri; e quando essa regola le sue prescrizioni secondo tutta la sua dottrina, bisogna prima confessare che è consentanea a sè stessa; e se le prescrizioni non paiono ragionevoli, bisogna provare che tutta la sua dottrina è falsa; non giudicare la Chiesa con uno spirito che non è il suo, e che essa riprova.
È notissimo che la Chiesa non ripone l’adempimento del precetto nella materiale assistenza de’ fedeli al Sacrifizio, ma nella volontà d’assisterci essa ne dichiara disobbligati gl’infermi e quelli che sono trattenuti da un’occupazione necessaria; e ritiene trasgressori quelli che, presenti con la persona, ne stanno lontani col core: tanto è vero che, anche nelle cose più essenziali, vuole principalmente il core de’ fedeli. Posto ciò, vediamo quali disposizioni certe supponga la trasgressione di questo precetto.
La santificazione del giorno del Signore è uno di que’ comandamenti che il Signore stesso ha dati all’uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno, d’apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l’uomo al suo Creatore.
Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più della maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità, e stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato degli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro altri oggetti de’ quali si disingannerà quando gli abbia posseduti; l’uomo prostrato dalla sventura, e l’uomo inebbriato da un prospero successo; l’uomo ingolfato negli affari, e l’uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine, e l’importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali, per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti giorni dell’uomo indotto nello studio il più alto, e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d’eterno contento a cui aneliamo, e di cui l’anima nostra sente d’esser capace: in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le comuni preghiere, rammentandoci le comuni miserie e i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive a’ suoi figli la maniera d’adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrifizio di Gesù Cristo, quel Sacrifizio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il cristiano che volontariamente s’astiene in un tal giorno da un tal Sacrifizio, può mai essere un giusto che viva della fede7? Può far vedere più chiaramente la noncuranza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel core un’avversione al cristianesimo? non ha rinunziato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell’aria mortale del gentilesimo.
Note
- ↑ Nella tesi sostenuta in Lipsia contro Giovanni Echio, l’anno 1819.
- ↑ Ideo dixi nullum esse peccatum natura sua veniale, sed omnia damnabilia: quod autem venialia sunt, Dei gratiae, quae magnipendenda est, tribuendum est. Luth. Resolutiones super propositionibus suis, Lipsiae disputatis. Opp. T. I, fol. ccciiii recto; Witebergae, 1545. La proposizione a cui allude qui, è la seguente: In bono peccare hominem, et peccatum veniale, non natura sua, sed Dei misericordia solum esse tale, aut in puero post baptismum peccatum remanens, negare, hoc est Paulum et Christum semel conculcare. Ibid. fol. ccxli recto.
- ↑ Habeant filii Dei, omne peccatum mortale esse; quia est adversus Dei voluntatem rebellio, quae eius iram necessario provocat; quia est Legis prævaricatio, in quam edictum est, sine exceptione, Dei iudicium; sanctorum delicta venialia esse, non suapte natura, sed quia ex Dei misericordia veniam consequuntur. Calvini, Institutio Christianae Religionis, cap. III, 90.
- ↑ Sunt autem quaedam quae levissima putarentur, nisi in Scripturis demonstrarentur opinione graviora. S. August. Enchirid. de Fide, etc., c. 79. Quae sint autem levia, quae gravia peccata, non humano, sed divino sunt pensanda iudicio. Ibid, c. 78.
- ↑ Non afferamus stateras dolosas, ubi oppendamus quod volumus, et quomodo volumus, pro arbitrio nostro dicentes, hoc grave, hoc leve est: sed afferamus divinam stateram de Scripturis Sanctis, tamquam de thesauris dominicis, et in illa quod sit gravius appendamus, immo non appendamus, sed a Domino appensa recognoscamus. De Baptismo, contra Donatistas. Lib. II, 9.
- ↑ Delicta quis intelligit? Psal. XVIII, 12.
- ↑ Justus autem ex fide vivit. Paul. ad Rom. I, 17, e altrove.