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capitolo sesto 457

pugnante alla ragione comune, non meno che alla fede cattolica. Ecco una delle proposizioni del primo su questo punto: Perciò dissi1 che nessun peccato è veniale di sua natura, ma che tutti meritano la dannazione; e che l’essere alcuni veniali è da attribuirsi alla grazia di Dio2.» E, in termini non meno espliciti, il secondo: «Tengono i figlioli di Dio, che ogni peccato è mortale3; perchè è una ribellione contro il voler di Dio, la quale provoca necessariamente la sua ira; perchè è una prevaricazione dalla legge, prevaricazione alla quale è intimato, senza eccezione, il giudizio di Dio; e che le colpe de’ santi sono veniali, non di loro natura, ma perchè ottengono il perdono dalla misericordia di Dio.»

La censura dell’illustre autore non cade dunque che sull’applicazione della massima, cioè sulla classificazione de’ peccati, che dice opposta a quella che trovavamo nella nostra coscienza. Su di che mi fo lecito di osservare prima di tutto, che la nostra coscienza, priva della rivelazione, non può mai essere un’autorità a cui ricorrere per riformare in ciò il giudizio, non solo della Chiesa, ma qualunque giudizio: non sarebbe che appellare da una coscienza a un’altra.

Al sentire che la distinzione de’ peccati mortali da’ veniali «cancellò quella che trovavamo nella nostra coscienza, tra l’offese più gravi e le più condonabili,» parrebbe che, quando la Chiesa insegnò questa distinzione, n’abbia trovata nelle menti degli uomini una anteriore, precisa e unanimemente ricevuta, e che a questa abbia sostituita la sua. Ma il fatto sta che il principio astratto di questa distinzione era bensì universalmente ricevuto, e faceva parte del senso comune; ma che, riguardo all’applicazione, il giudizio della coscienza era (come s’è osservato più volte) vario secondo i luoghi, i tempi, e gl’individui; che ad alcuni faceva parer colpa grave ciò che per altri era colpa leggiera, o non colpa, o anche virtù; che alcuni perfino (e non erano i meno pensatori) tenevano che tutte le colpe fossero pari; e, per conseguenza, rifiutavano il principio medesimo. La Chiesa, istituita per illuminare e per regolare la coscienza, la Chiesa, fondata appunto perché questa non era nè incorrotta, nè unanime, nè infallibile, non può esser citata al suo tribunale.

Quale doveva dunque essere per la Chiesa il criterio a giudicare della gravità delle colpe? Certo, la parola di Dio.

Uno degli uomini che hanno più meditato, e scritto più profondamente su questa materia, sant’Agostino, osserva che: «alcune cose si crederebbero leggerissime, se nelle Scritture non fossero dichiarate più gravi che non pare a noi; e da ciò appunto deduce che: col giudizio divino, e non con quello degli uomini si deve decidere della gravità delle colpe4. Non prendiamo,» dice anche altrove, «non prendiamo bilance false per pesare ciò che ci piace, e come ci piace, dicendo, a nostro capriccio, questo è grave, questo è leggiero; ma prendiamo la bilancia

  1. Nella tesi sostenuta in Lipsia contro Giovanni Echio, l’anno 1819.
  2. Ideo dixi nullum esse peccatum natura sua veniale, sed omnia damnabilia: quod autem venialia sunt, Dei gratiae, quae magnipendenda est, tribuendum est. Luth. Resolutiones super propositionibus suis, Lipsiae disputatis. Opp. T. I, fol. ccciiii recto; Witebergae, 1545. La proposizione a cui allude qui, è la seguente: In bono peccare hominem, et peccatum veniale, non natura sua, sed Dei misericordia solum esse tale, aut in puero post baptismum peccatum remanens, negare, hoc est Paulum et Christum semel conculcare. Ibid. fol. ccxli recto.
  3. Habeant filii Dei, omne peccatum mortale esse; quia est adversus Dei voluntatem rebellio, quae eius iram necessario provocat; quia est Legis prævaricatio, in quam edictum est, sine exceptione, Dei iudicium; sanctorum delicta venialia esse, non suapte natura, sed quia ex Dei misericordia veniam consequuntur. Calvini, Institutio Christianae Religionis, cap. III, 90.
  4. Sunt autem quaedam quae levissima putarentur, nisi in Scripturis demonstrarentur opinione graviora. S. August. Enchirid. de Fide, etc., c. 79. Quae sint autem levia, quae gravia peccata, non humano, sed divino sunt pensanda iudicio. Ibid, c. 78.