Operette morali/Il Parini, ovvero Della Gloria/Capitolo secondo

Il Parini, ovvero Della Gloria
Capitolo secondo

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Il Parini, ovvero Della Gloria
Capitolo secondo
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Potrei qui nel principio distendermi lungamente sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti opporrà nel cammino che hai cominciato. I quali ostacoli, sempre malagevolissimi a superare, spesso insuperabili, fanno che più di uno scrittore, non solo in vita, ma eziandio dopo la morte, è frodato al tutto dell’onore che se gli dee. Perché, vissuto senza fama per l’odio o l’invidia altrui, morto si rimane nell’oscurità per dimenticanza; potendo difficilmente avvenire che la gloria d’alcuno nasca o risorga in tempo che, fuori delle carte per sé immobili e mute, nessuna cosa ne ha cura. Ma le difficoltà che nascono dalla malizia degli uomini, essendone stato scritto abbondantemente da molti, ai quali potrai ricorrere, intendo di lasciarle da parte. Né anche ho in animo di narrare quegl’impedimenti che hanno origine dalla fortuna propria dello scrittore, ed eziandio dal semplice caso, o da leggerissime cagioni: i quali non di rado fanno che alcuni scritti degni di somma lode, e frutto di sudori infiniti, sono perpetuamente esclusi dalla celebrità, o stati pure in luce per breve tempo, cadono e si dileguano interamente dalla memoria degli uomini; dove che altri scritti o inferiori di pregio, o non superiori a quelli, vengono e si conservano in grande onore. Io ti vo’ solamente esporre le difficoltà e gl’impacci che senza intervento di malvagità umana, contrastano gagliardamente il premio della gloria, non all’uno o all’altro fuor dell’usato, ma per l’ordinario, alla maggior parte degli scrittori grandi.

Ben sai che niuno si fa degno di questo titolo, né si conduce a gloria stabile e vera, se non per opere eccellenti e perfette, o prossime in qualche modo alla perfezione. Or dunque hai da por mente a una sentenza verissima di un autore nostro lombardo; dico dell’autore del Cortegiano1: la quale è che rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie degli scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi. E qui primieramente pensa, quanto piccolo numero di persone sieno assuefatte ed ammaestrate a scrivere; e però da quanto poca parte degli uomini, o presenti o futuri, tu possa in qualunque caso sperare quell’opinione magnifica, che ti hai proposto per frutto della tua vita. Oltre di ciò considera quanta sia nelle scritture la forza dello stile; dalle cui virtù principalmente, e dalla cui perfezione, dipende la perpetuità delle opere che cadono in qualunque modo nel genere delle lettere amene. E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile una scrittura famosa, di cui ti pensavi che quasi tutto il pregio stesse nelle sentenze, tu la riduci in istato che ella ti par cosa di niuna stima. Ora la lingua è tanta parte dello stile, anzi ha tal congiunzione seco, che difficilmente si può considerare l’una di queste due cose disgiunta dall’altra; a ogni poco si confondono insieme ambedue, non solamente nelle parole degli uomini, ma eziandio nell’intelletto; e mille loro qualità e mille pregi o mancamenti, appena, e forse in niun modo, colla più sottile e accurata speculazione, si può distinguere e assegnare a quale delle due cose appartengano, per essere quasi comuni e indivise tra l’una e l’altra. Ma certo niuno straniero è, per tornare alle parole del Castiglione, assueto a scrivere elegantemente nella tua lingua. Di modo che lo stile, parte sì grande e sì rilevante dello scrivere, e cosa d’inesplicabile difficoltà e fatica, tanto ad apprenderne l’intimo e perfetto artificio, quanto ad esercitarlo, appreso che egli sia; non ha propriamente altri giudici, né altri convenevoli estimatori, ed atti a poter lodarlo secondo il merito, se non coloro che in una sola nazione del mondo hanno uso di scrivere. E verso tutto il resto del genere umano, quelle immense difficoltà e fatiche sostenute circa esso stile, riescono in buona e forse massima parte inutili e sparse al vento. Lascio l’infinita varietà dei giudizi e delle inclinazioni dei letterati; per la quale il numero delle persone atte a sentire le qualità lodevoli di questo o di quel libro, si riduce ancora a molto meno.

Ma io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un’opera perfetta o vicina alla perfezione, e capace veramente dell’immortalità, non basta essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare. Perciocché l’esperienza ti mostrerà che a proporzione che tu verrai conoscendo più intrinsecamente quelle virtù nelle quali consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna differenza sarà dal conoscerle, all’imparare e possedere il detto modo; anzi saranno l’una e l’altra una cosa sola. Di maniera che l’uomo non giunge a poter discernere e gustare compiutamente l’eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli acquisti la facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché quell’eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell’uso e dell’esercizio proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo, niuno per verità intende, che e quale sia propriamente il perfetto scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche avere la debita ammirazione agli scrittori sommi. E la più parte di quelli che attendono agli studi, scrivendo essi facilmente, e credendosi scriver bene, tengono in verità per fermo, quando anche dicano il contrario, che lo scriver bene sia cosa facile. Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarti e saper lodarti degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta. Io ti so dire (e credi a questa età canuta) che appena due o tre sono oggi in Italia, che abbiano il modo e l’arte dell’ottimo scrivere. Il qual numero se ti pare eccessivamente piccolo, non hai da pensare contuttociò che egli sia molto maggiore in tempo né in luogo alcuno.

Più volte io mi maraviglio meco medesimo come, ponghiamo caso, Virgilio, esempio supremo di perfezione agli scrittori, sia venuto e mantengasi in questa sommità di gloria. Perocché, quantunque io presuma poco di me stesso, e creda non poter mai godere e conoscere ciascheduna parte d’ogni suo pregio e d’ogni suo magistero; tuttavia tengo per certo che il massimo numero de’ suoi lettori e lodatori non iscorge ne’ poemi suoi più che una bellezza per ogni dieci o venti che a me, col molto rileggerli e meditarli, viene pur fatto di scoprirvi. In vero io mi persuado che l’altezza della stima e della riverenza verso gli scrittori sommi, provenga comunemente, in quelli eziandio che li leggono e trattano, piuttosto da consuetudine ciecamente abbracciata, che da giudizio proprio e dal conoscere in quelli per veruna guisa un merito tale. E mi ricordo del tempo della mia giovinezza; quando io leggendo i poemi di Virgilio con piena libertà di giudizio da una parte, e nessuna cura dell’autorità degli altri, il che non è comune a molti; e dall’altra parte con imperizia consueta a quell’età, ma forse non maggiore di quella che in moltissimi lettori è perpetua; ricusava fra me stesso di concorrere nella sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtù che nei poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta prevalere a quella di Lucano. Vedi che la moltitudine dei lettori, non solo nei secoli di giudizio falso e corrotto, ma in quelli ancora di sane e ben temperate lettere, è molto più dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle delicate e riposte; più dall’ardire che dalla verecondia; spesso eziandio dall’apparente più che dal sostanziale; e per l’ordinario più dal mediocre che dall’ottimo. Leggendo le lettere di un Principe, raro veramente d’ingegno, ma usato a riporre nei sali, nelle arguzie, nell’instabilità, nell’acume quasi tutta l’eccellenza dello scrivere, io m’avveggo manifestissimamente che egli, nell’intimo de’ suoi pensieri, anteponeva l’Enriade all’Eneide; benché non si ardisse a profferire questa sentenza, per solo timore di non offendere le orecchie degli uomini. In fine, io stupisco che il giudizio di pochissimi, ancorché retto, abbia potuto vincere quello d’infiniti, e produrre nell’universale quella consuetudine di stima non meno cieca che giusta. Il che non interviene sempre, ma io reputo che la fama degli scrittori ottimi soglia essere effetto del caso più che dei meriti loro: come forse ti sarà confermato da quello che io sono per dire nel progresso del ragionamento.

Note

  1. Lib. 1, ed. di Milano 1803, vol. 1, p. 79.