Opere minori (Ariosto)/Poesie latine/Alcune versioni/Libro I, Carme IV
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Coro di giovani ferraresi.
Sorgete: omai significâr da lungi
Le tibie indizio che la sposa appressa.
Ecco vien, bella al par di Citerea
Quando aggiogati i cigni si ritorna
A Memfi, o di Citera agli alti gioghi,
O al bosco idalio, o d’Amatunta ai templi.
E non vedete come intorno agli occhi,
E al bel sembiante, ed alle gote, e a tutta
La maëstosa virginal persona
La Grazia aleggi, e ventilando i lievi
Vanni celestïal luce in lei piova?
Non vedete che in festa intorno a lei
Scherzan teneri Amori, e dai canestri
Versan sul capo adorno a gara fiori?
Quale alla neve della fronte i gigli,
Qual gli eterni amaranti pareggiando
Alle gote e le rose porporine,
S’ammiran poi che verso tal beltade
I diversi color perdono lume.
E non vedete là con mesta fronte
Seguirne il carro gioventù romana
Cui pesa il giorno al ritornar prescritto?
Chè non udiam ciò ch’e’ ravvolgon seco
In tuon sommesso, e non tentiam di arguti
Detti far lor pronta risposta, Imene
Così chiamando al talamo regale?
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo, vieni.
Coro di giovani romani.
Vedete voi, compagni, a noi venire
Erculei garzonetti, che di tratto
Qui sono presti a gareggiar del canto?
Senza il perchè così non vengon certo.
Malagevol ci fia vincer, chè i carmi
Voglion mente serena: or tristi noi,
Ch’altro dar noi possiam che non sia pianto,
Caduti in fondo da cotanta cima,
Poscia che te, bellissima Lucrezia,
Oggi talamo estranio invidia a noi?
Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto.
Ferraresi.
Ecco i roman cantori, che sovente
Cinser del segno di vittoria il capo,
Van ricercando meditati carmi.
Compagni, questa non è agevol palma
Per noi, che ad alternare a prova i canti
Incominciam: pur maggior gloria è quella
Che di molta fatica si deriva.
Qua presto; all’opra date tutti intesa,
Nè indugio si frapponga a dir bei versi
Quando a voi tocchi del cantar la volta.
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo vieni.
Romani.
Tutto cangia quaggiù: Roma che un giorno
Il capo sollevò, maggior d’ogni altra
D’Italia, quanto annoso abete incontro
A stel di giunco molle, e quanto il Tebro
Antico incontro a piccioletti rivi,
Vuoi per gloria di studî o d’alte mura;
Or sotto il peso delle sue ruine
Giace deserta e vuota; e dove i templi
Torreggiavan de’ numi, e il Campidoglio,
La Curia, e il seggio del Senato augusto,
Ellera va carpon co’ piè distorti,
Ed infelici arbusti a serpi nido.
Ma lieve danno è questo: al suol ruini,
Se avanza ancor reliquia alcuna, e solo
In ignudi abitar antri ne giovi,
Pur che di tue pupille il vivo raggio,
O sol di verginelle, ivi ne scaldi.
Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto.
Ferraresi.
Tutto cangia quaggiù: povera un giorno
Ferrara cinser brevi mura, e quinci
Erbose rive, e quindi limacciosa
Palude, umil dovizia in tenue stato.
Case e templi avea angusti, e sol bastanti
A poca gente, e a picciolo Senato.
Fra le città vicine ora si estolle
Quanto Apennin sui pampinosi colli,
O l’Eridàn su quei che metton foce
E nel mar che soggiace e nel soprano.
Là dove dentro dall’algoso gorgo
Spingeasi palischermo, o dove reti
Si asciugavan distese in campo aprico,
Son regii templi, e case e piazze e croci
Di strade, e curia e torri e mura e porte,
Opra di Alcide; a tal che la cittade
A popolo possente appena basta,
Che per santi costumi e pari studî
Contender può colla romana gente.
Pur non vanta alcun suo pregio Ferrara
Quanto che te riceve a sua signora,
O chiarissimo sol di verginelle.
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo, vieni.
Romani.
Qual nocchier che nel vasto Ionio rotta
Degli austri al furïar sua nave, carca
D’assira e tiria merce, a scogli acuti
Lasciala affissa e, disperato e ignudo,
Naufrago è spinto alfine a ignote arene;
Mentre di pianti e di querele assorda
Il vôto lido, luccicar sul limo
Vede fulgida gemma che alla riva
Gittò l’atra tempesta, e si consola
De’ perduti tesori aver ristoro;
Ed ecco, in quella che ne ammira incauto
Il vivo lume e la beltà, si avventa
Man poderosa, e innanzi a lui la fura,
E lo lascia ad empir de’ suoi lamenti
Il mare e il bosco: tal lunga stagione
Roma gl’iniqui fati pianse, e in duolo
Sospirò i vanti de’ Quiriti antichi;
Quando, il guardo girando al Vaticano,
Vide, Lucrezia, te, del chiaro sangue
Borgia, bella così che altra più bella
Di volto e di costume unqua non v’ebbe,
Nè di poeti fantasía ritrasse;
E già al tuo raggio ristorava i danni.
Piangete o sette Colli, o Tebro piagni,
E voi memorie del vetusto impero,
Chè or gli Estensi fratelli, ed i congiunti
Principi, cui dalla città natale
Inviò prode garzon stirpe di Alcide,
Impunemente ne hanno fatto scemi
Di quanto avemmo di più caro, e lei
Ad estranio marito hanno ristretta.
Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto.
Ferraresi.
Come giardino cui verdura eterna
Ombreggia, e rivo zampillante irriga
Le riquadrate ajuole, ancor che grido
Si abbia quando l’idea Capra nel cielo
Appare, o al sorger della Libra, o allora
Che i seminati il sirio Can saetta;
Eppur vista di sè porge più grata
Quando rimena tiepid’aure il Tauro,
E ogni stelo s’ingemma, e in bei colori
L’erba si pinge, e il suol vestono gigli,
Brevi giacinti, vïolette e rose:
Così quella Ferrara che rifulse
Per regal culto, sacri templi e moli,
Di che si accrebbe la cittade, o meglio
Per private ricchezze e lusso onesto,
O innanzi tutto per gl’ingenui studî
Dell’età verde e dell’età matura,
Oggi è a veder più bella e più piacente
Poi che tu, tratta dal tuo tauro, o Borgia,
Coll’auree corna rinnovelli l’anno.
A nuova primavera inusitati
Colori porta il suol; natía ghirlanda
Si fan di varî fior gli orti di Alcide;
Coll’arte onrata in che ciascun più vale
Or te festeggia: e noi, che alle Camene
Additti siamo in fin dagli anni primi,
Lieti cantiam tue nozze in carme alterno.
Caro Imen, dolce Imene, Imenéo, vieni.
Romani.
Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto,
Che alle lacrime puoi toglier di afflitti
Parenti timorosa verginella,
E data in braccio di marito ardente
Lungi menarla fuor del natío nido:
Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto.
Ferraresi.
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo, vieni,
Che a giovinetto innamorato cerchi
Di unire innamorata verginella;
Che degli amanti alle segrete pene
Pietoso sei, nè sai lasciar fanciulla
Ad isfiorir in solitario letto;
E cittadi per gran tratto divise
Di nodo genïal stringer ti piaci:
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo, vieni.
Romani.
Voi per candor leggiadro un dì lodate
Fanciulle, che abitate in riva al fiume
Ov’ebbe tomba il mal cauto Fetonte,
Perchè dipinte di letizia il viso
Movete incontro alla novella sposa?
Non vi accorgeste voi che al primo lampo
Di maggior lume, il vostro ebe, e vien meno,
Come Boote all’apparir del Sole,
La beltà che vi fea vaghe cotanto?
Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto.
Ferraresi.
O a lungo incolte e in piccol pregio avute
Fanciulle, che abitate i pingui cólti
Testimonî d’erculee fatiche,
Dove l’inclito duca i capi spense
Dell’idra che infettò con tarde spire
I campi; oggi, al venir della romana
Vergine, sollevate al fin la fronte.
Come la bella faccia delle cose,
Se opaca notte la nasconde, avvolta
In caligine cupa a niun diletta,
E per colpa non sua perde vaghezza;
Poi, quando di Titon la sposa sorge
Dall’Indo, appien si mostra e si rischiara,
E ascolta il sugo di meritate lodi:
Tal voi, che in le natíe stanze d’ingrata
Ombra foste coperte infin che volle
L’erculeo eroe, spezzato il primo nodo,
Per tanti anni menar celibe vita,
Allo spuntar della romana aurora
Vi porgete più care, e in voi si ammira
Beltà che unquanco non fu vista in pria.
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo, vieni.
Ma voi, roman cantori, omai cessate
La gara; i carmi avvicendammo assai.
Ora è tempo di entrare i regî tetti,
Or gridar non v’incresca in suon concorde:
Dolce Imen, caro Imene, Imenéo, vieni.
Giuseppe Ignazio Montanari.