Opere minori (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Elegia IV
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ELEGIA QUARTA.
1Era candido il corvo, e fatto nero
Meritamente fu, perchè troppo ebbe
3Espedita la lingua a dir il vero.
Aver taciuto Ascalafo2 vorrebbe
Il testimon che sullo stigio fiume
6Alla madre e alla figlia udire increbbe;
Chè di funeste e d’infelici piume
Si ricoverse, e restò augello osceno,
9Dannato sempre ad abborrir il lume.
Pôr si devrían tutte le lingue a freno,
E gli altrui fatti apprender da costoro
12Di spiar poco, e di parlarne meno.
Questi per troppo dir puniti fôro;
Nè riguardò chi lor punì, che fosse
15D’ogni menzogna netto il detto loro.
Se degli offesi Dei sì l’ira mosse
L’esser del vero garruli e loquaci,
18Che con eterna infamia ambi percosse;
Qual pena, qual obbrobrio a quegli audaci
Si converría, ch’altri biasmando vanno
21Di colpe in che si sanno esser mendaci?
O di noi più non curano, o non hanno
Qua giù più forza, degli nostri casi
24Quei che reggono il ciel più poco sanno.
Che non vi sieno ancor crederei quasi,
Se non ch’io veggio pur per cammin certo
27L’estate, il verno andar, gli orti e gli occasi.
Ma se vi son, com’è da lor sofferto
Che lode e oltraggi, e che premi e supplici
30Non sian secondo il buono e ’l tristo merto?
Lor debito saría dalle radici
Le malediche lingue sveller tosto,
33Che di falsi rumor sono inventrici.
Qual altro più a martîr debb’esser posto,
Di quel che a donna abbia con falsi gridi
36Biasmo di ch’essa sia innocente, imposto?
Peggio è che furti, e peggio è che omicidi,
Macchiar l’onor, che di ricchezza e vita
39Sempre stimar più tra li saggi vidi.
Se per sentirsi monda, esser ardita
Femmina deve a far3 prova che in libro,
42Meglio che in marmo, abbia a restar scolpita;
Nè a Tuzia che portò l’acqua nel cribro,
Nè cedo a quella Claudia che ’l naviglio
45Della madre de’ Dei trasse pel Tibro.4
Al ferro, al fòco, al tôsco, a ogni periglio
Chieggio d’espormi, per mostrar che a torto
48Ho da portar per questo basso il ciglio.
Se non indegnamente in viso porto
Così importuna macchia, che potermi
51Con poca acqua lavar pur mi conforto;
Cresca sì che mi cuopra, e poi si fermi,
Nè mai più mi si levi, e tutto il mondo
54In ignominia sempre abbia a vedermi;
E séguiti il martir non pur secondo
Che fôra degno il fallo, ma il più grave
57Ch’abbia l’inferno al tenebroso fondo.
Ma se si mente chi incolpata m’have;
Com’è sincero il cor, così di fuore
60Ogni bruttezza presto mi si lave:
E tutto quel martir che a tanto errore
Si converría, veggia cader su l’empio
63Che della falsa accusa è stato autore;
Sì che ne pigli ogni bugiardo esempio.
Note
- ↑ Questa Elegia è scritta dall’autore in nome di qualche sua amica, la quale si lamenta di essere stata incolpata a torto dai malevoli di aver mancato nell’onestà. La trasformazione del corvo di bianco in nero per aver rivelati ad Apollo gli amori di Coronide, madre di Esculapio, con Ischis, è narrata da Apollodoro, lib. 3. — (Molini.)
- ↑ Ascalafo fu trasformato da Proserpina in barbagianni, perchè rivelò aver ella gustato d’una melagrana nel regno del suo rapitore, onde non potè far ritorno alla madre Cerere. — (Molini.)
- ↑ Cioè, deve essere ardita a far prova ec.
- ↑ Prima del nostro il Petrarca: «Fra l’altre la vestal vergine pia, Che baldanzosamente corse al Tibro, E per purgarsi d’ogni infamia ria, Portò dal fiume al tempio acqua col cribro.» Trionf. Cast., cap. I. Di Tuzia e Claudia vestali è noto ciò che, non senza superstizione, ci narrano gli storici.