Opere minori (Ariosto)/Elegie e Capitoli/Elegia III

Elegia III

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ELEGIA TERZA.




     Meritamente ora punir mi veggio
Del grave error che a dipartirmi feci
3Della mia donna, e degno son di peggio.
     Ben poco saggio fui, ch’all’altrui preci,
Cui doveva e potei chiuder gli orecchi,
6Più ch’al mio desir proprio soddisfeci.
     S’esser può mai che contra lei più pecchi,
Tal pena sopra me subito cada,
9Che nel mio esempio ogni amator si specchi.
     Deh! chi spero io che per sì iniqua strada,
Sì rabbiosa procella d’acqua e venti,
12Possa esser degno che a trovar si vada?1

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     Arroge il pensar poi da chi m’assenti,
Che travaglio non è, non è periglio,
15Che più mi stanchi o che più mi spaventi.
     Péntomi, e col pentir mi meraviglio
Com’io potessi uscir sì di me stesso,
18Ch’io m’appigliassi a questo mal consiglio.
     Tornar addietro omai non m’è concesso,
Nè mirar se mi giova o se m’offende:
21Lecito fôra2 più quel c’ho promesso.
     Mentre ch’io parlo, il torbid’austro prende
Maggior possanza, e cresce il verno, e sciolto
24Da’ rovinosi balzi il licor scende:
     Di sotto il fango, e quinci e quindi il folto
Bosco mi tarda; e in tanto l’aspra pioggia,
27Acuta più che stral, mi fêre il volto.
     So che qui appresso non è casa loggia
Che mi ricopra, e pria che a tetto giunga,
30Per lungo tratto il monte or scende or poggia.
     Nè più affrettar, perch’io lo sferzi o punga,
Posso il caval, chè lo sgomenta l’ira
33Del cielo, e stanca la via alpestre e lunga.
     Tutta quest’acqua e ciò che intorno spira,
Venga in me sol, chè non può premer tanto
36Ch’agguagli il duol che dentro mi martira.
     Chè se a Madonna io m’appressassi quanto
Me ne dilungo, e fosse speme al fine
39Del mio cammin poi respirarle a canto;
     E le man bianche più che fresche brine
Baciarle, e insieme questi avidi lumi
42Pascer delle bellezze alme e divine;
     Poco il mal tempo, e monti e sassi e fiumi,
Mi darían noja, e mi parrebbon piani,
45E più che prati molli, erte e cacumi.
     Ma quando avvien che sì me ne allontani,
Le amene Tempe e del re Alcinoo gli orti
48Che pôn, se non parermi orridi e strani?
     Gli altri in le lor fatiche hanno conforti
Di riposarsi dopo, e questa speme
51Li fa a patir le avversità più forti.

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     Non più tranquille già nè più serene
Ore attender poss’io; ma al fin di queste
54Pene e travagli, altri travagli e pene.
     Altre pioggie al coperto, altre tempeste
Di sospiri e di lagrime mi aspetto,
57Che mi sien più continue e più moleste.
     Duro sarammi più che sasso il letto,
E il cor tornar per tutta questa via3
60Mille volte ogni dì sarà costretto:
     Languendo il resto della vita mia,
Si struggerà di stimolosi4 affanni,
63Percosso ognor da penitenza ria.
     I mesi, l’ore e i giorni a parer anni
Cominceranno, e diverrà sì tardo,
66Che parrà il tempo aver tarpato i vanni;
     Che già, godendo del soave sguardo,5
Dell’invitta beltà, dell’immortale
69Valor, del bel sembiante, onde tutt’ardo,
     Vedea fuggir più che da corda strale.




Note

  1. Cioè: possa esser degno che per altri si vada a trovarlo? Il poeta qui parla di sè stesso, rispettivamente alle asprezze del paese e del clima della Garfagnana, al cui governo recavasi nel febbrajo del 1522. Si rilegga la Satira V.
  2. Non crediamo che questo fôra sia qui posto nel suo grammatical senso di sarebbe; ma piuttosto, in quello abusivo ed improprio di sarà.
  3. Cioè per quella che allora faceva, recandosi da Ferrara a Castelnovo di Garfagnana.
  4. Può aggiungersi, per via di erudizione, agli esempî del trecento prosastici, che sono nel Vocabolario.
  5. La stampa del Rolli, colle altre più antiche: «Che già aspettando di furar un guardo Dall’invitta beltà, dall’immortale Valor, da’ bei sembianti ec.»